Antitrust. Parola che significa tutela della concorrenza e dei consumatori, che però suona sinistra per i giganti tecnologici. Tra indagine e risultato ci passa un'enormità, ma questa volta gli Stati Uniti sembrano fare sul serio: il dipartimento di Giustizia e la Federal Trade Commission dovrebbero avviare indagini sulla posizione dominante di Amazon, Google, Facebook e Apple. Sembrano fare sul serio perché le indagini non sarebbero una mossa isolata ma il frutto di un sentire condiviso e (anche se per ragioni diverse) bibartisan.
Le indagini
La notizia è venuta fuori venerdì 31 maggio, sulle pagine del Wall Street Journal: le due autorità antitrust si spartiranno le indagini. La Ftc metterà gli occhi su Facebook e Amazon; il dipartimento di Giustizia dovrebbe concentrarsi su Google e Apple. La prima conferma è arrivata dal Congresso: la commissione Giustizia della Camera ha annunciato l'apertura di un'indagine sulla “concorrenza nel mercato digitale”.
David Cicilline, membro della Commissione, l'ha definita un'azione “urgente”, perché “un piccolo numero di piattaforme dominanti e non regolamentate ha un potere straordinario nel commercio, nella comunicazione e nelle informazioni online”. Tutti sanno quali siano queste piattaforme, ma Cicilline ha sottolineato che l'indagine non si indirizzerà su una specifica compagnia, ma sarà mossa dalla convinzione che “internet guasto” (“Internet is broken”). Un lessico molto simile a quello usato da Elisabeth Warren: la candidata democratica alla Casa Bianca si batte per “fare a pezzi” (letteralmente) Amazon, Google, Facebook e Apple.
Google e Apple
Delle eventuali indagini non si conoscono tempi e modalità. Se lo schema indicato dal Wall Street Journal, e poi da Reuters, il dipartimento di Giustizia si occuperebbe di Google, puntando sulle concentrazione di potere nel mercato della pubblicità digitale (su quattro dollari investiti, quasi 4 finiscono nelle casse di Mountain View) e sull'abuso di posizione dominante di Android. Ricerche e sistema operativo offrirebbero una via preferenziale ad alcuni servizi, decretando vincitori e vinti tra sviluppatori e produttori.
Questo, almeno, è stato l'approccio dell'Unione europea, che in fatto di antitrust si è mossa molto prima, comminando a Google due multe da 2,4 e 4,3 miliardi di euro. Bruxelles sta indagando anche su Apple, su impulso di Spotify. La piattaforma di streaming ha accusato la Mela di spremere gli sviluppatori, chiedendo una quota troppo alta degli incassi per consentire l'accesso all'App Store. Di fatto non ci sarebbe libertà di scelta: se hai un iPhone, o stai con Apple o stai fuori. È lo stesso principio che ha mosso la class action approvata dalla Corte Suprema a maggio. Anche gli utenti possono fare causa a Apple per abuso di posizione dominante.
Facebook e Amazon
L'altro versante delle inchieste riguarderebbe Amazon e Facebook. Delle due società si dovrebbe occupare la Ftc. La Commissione si sta già occupando di Facebook, anche se per un tema legato ma non sovrapponibile all'antitrust: il trattamento dei dati degli utenti. L'indagine è scattata dopo il caso Cambridge Analytica: la falla avrebbe infranto un accordo sottoscritto nel 2011, quando la Ftc graziò Mark Zuckerberg in cambio della promessa di rafforzare le misure sulla privacy.
L'indagine porterà a una multa salata (fino a 5 miliardi, secondo le stime di Menlo Park), come dimostrano i 3 miliardi già accantonati in bilancio nell'ultima trimestrale. Di Amazon si sa poco o nulla, ma anche in questo caso l'Europa potrebbe aver indicato la strada. Il gruppo di Jeff Bezos è sotto indagine Ue per concorrenza sleale: nella doppia veste di venditore e intermediario, potrebbe sfruttare i dati della piattaforma per bilanciare la propria offerta.
Mercato e politica a braccetto
Il mercato ha già parlato. Apple ha accusato il colpo nella seduta di lunedì 3 giugno, per poi recuperare quanto perso. Amazon ha ceduto il 2,5%. Più pesanti le ripercussioni su Facebook e Alphabet (la holding che controlla Google): il titolo di Menlo Park ha perso il 5,6% e quello di Mountain View il 4,7%. La risposta di Wall Street è in linea con il clima politico. Già durante la campagna presidenziale, Trump si era scontrato con le grandi compagnie.
Invitò Apple a produrre negli Stati Uniti e minacciò Amazon che, in caso di elezioni, avrebbe avuto “grossi guai”. Arrivato a Washington, Trump ha accusato Twitter, Facebook e Google di boicottare i conservatori. Diversi parlamentari repubblicani hanno sposato questa versione e a maggio la Casa Bianca ha aperto una pagina per raccoglie le denunce di censura da parte dei social network.
Trump si guarda il dito indicando la luna: il problema non è la discriminazione deliberata (mai dimostrata) ma il ruolo di algoritmi e piattaforme. È la prospettiva da cui parte Elisabeth Warren: “Google ha troppo potere – ha scritto su Twitter la notizia di possibili indagini – e lo usa per colpire i piccoli business, soffocare l'innovazione e inclinare il campo da gioco contro chiunque”. Le due prospettive, al di là delle loro fondatezza e combinate con le campagne come #deletefacebook, hanno comunque instaurato un nuovo clima. La base per le future inchieste.
Si fa presto a dire “dominio digitale”
Non sarà semplice. Le audizioni al Congresso dei grandi ceo (da Zuckerberg a Pichai) non hanno prodotto effetti, se non quello di mostrarel'impreparazione dei parlamentari sul digitale. Non sarà semplice perché si fa presto a dire “piattaforme digitali”. Google, Apple, Facebook e Amazon hanno modelli molto diversi. I primi due fatturano soprattutto grazie alla pubblicità, Amazon guadagna dall'e-commerce e dal cloud, Apple da servizi e hardware. Si tratta poi di società estremamente variegate.
Ad esempio: Amazon è dominante nell'e-commerce e primo nel cloud (dove Google insegue) ma comprimario nel mercato della pubblicità online (dove Google spadroneggia). Per Apple la questione sarebbe ancora diversa: sviluppatori e utenti non avrebbero alternative all'App Store, ma in un “recinto” che oggi vale circa il 17% del mercato degli smartphone. È la versione di Cook: l'App Store è mio e lo gestisco io.
Se non vi va bene, compratevi un altro marchio. A tutto questo si aggiunge un tema ulteriore: se, come ha detto Cicilline, l'ambizione non è solo multare ma ridisegnare le norme, come si “quantifica” una posizione dominante di società che offrono spesso servizi gratuiti? Il focus sarà sugli iscritti a Facebook, su chi compra Apple e usa Amazon, su chi cerca online su Google o solo sugli sviluppatori? Più in generale: chi sono i clienti e chi i concorrenti? Il più celebre precedente antitrust, quello di Microsoft a cavallo del millennio, non ha “fatto a pezzi” - per usare le parole di Warren - la compagnia di Bill Gates: si arrivò a un accordo. Questo non significa che la lunga causa non ebbe effetti.
Ne ha avuti, ma non tanto per gli obblighi (una maggiore apertura agli sviluppatori terzi) quanto per aver condizionato le scelte di Microsoft (più caute) negli anni successivi. Oggi, sotto la guida di Satya Nadella, la compagnia è completamente diversa rispetto a vent'anni fa. Come diversi (e più complessi) sono l'universo tecnologico e l'idea stessa di concorrenza. È necessario, ma non sarà semplice.