Facebook, pressata dalla Commissione europea, ha fatto il primo passo: registrerà il fatturato dove lo realizzerà. Anche se non ci sono certezze sulle conseguenze della decisione e anche se abbondano le soluzioni per aggirarla, è un primo passo verso una maggiore trasparenza. Che non è proprio il punto forte delle maggiori compagnie tecnologiche al mondo. Ecco come i loro assetti societari sono organizzati per alleggerire il peso fiscale.
Apple: dall'Irlanda a Jersey
All'inizio di dicembre, Apple ha trovato un accordo con il governo irlandese: pagherà 13 miliardi di euro di imposte arretrate. Il rapporto tra Dublino e la Mela è stato molto favorevole tra il 2003 e il 2014. L'Irlanda, afferma la Commissione Ue, “ha garantito benefici fiscali” tali da offrire a Apple la possibilità di pagare solo lo 0,005% sui profitti. L'architettura creata dal gruppo riusciva infatti ad ammorbidire la già soffice tassazione irlandese (12,5% sui profitti). È stata la stessa Commissione a ricostruirla. Grazie alla controllata Apple Sales International, tutti gli acquisti fatti in un negozio Apple europeo vengono contabilizzati in Irlanda, lasciando praticamente a bocca asciutta gli altri Paesi membri. La società, però, utilizzava un ulteriore passaggio (consentito dalle regole di Dublino): parte dei profitti venivano dedotti perché spediti negli Stati Uniti per finanziare l'attività di Ricerca e sviluppo di Cupertino. Il resto (quasi tutto il fatturato europeo) veniva inviato in un “ufficio centrale”, che però non aveva né una vera sede né dipendenti. Un'entità senza Stato e senza tasse.
Di consegueza, solo una minima parte del fatturato era soggetto al fisco irlandese. Oggi questo meccanismo non è più concesso: le vendite vengono ancora contabilizzate in Irlanda ma sono soggette alla tassazione locale e non più a quella della sede centrale fantasma. All'inizio di novembre, però, Apple (dopo le rivelazioni dei Paradise Papers) ha confermato che “la residenza della filiale sussidiaria che controlla la liquidità estera è stata trasferita a Jersey”, isola e paradiso fiscale della Manica. Una mossa per trovare nuovi spazi vista l'offensiva europea sulle multinazionali di internet? L'obiettivo, secondo la società, è “assicurare che gli obblighi e gli oneri fiscali verso gli Stati Uniti non venissero ridotti” perché è negli Stati Uniti che avviene lo sviluppo del prodotto.
Google: il triangolo con l'Olanda
A maggio Google ha raggiunto un accordo con il Fisco italiano per pagare 306 milioni di euro, relativi al periodo 2009-2013, che comprendono però, ha spiegato l'Agenzia delle Entrate, anche “importi riferibili al biennio 2014 e 2015 e a un vecchio contenzioso relativo al periodo 2002-2006”. A spiegare come funziona lo schema Google è stato Alberto Zanardi, consigliere dell’Ufficio parlamentare di bilancio, nel corso di un’audizione al Senato lo scorso 15 marzo.
La capogruppo ha ceduto i diritti di sfruttamento della propria tecnologia (cioè, prima di tutto, la possibilità di utilizzare l'algoritmo) a una controllata registrata in Irlanda (Google Ireland Holding) ma amministrata dalle Bermuda. Questa società, a sua volta, concede una “sub-licenza” a un'altra entità irlandese (Google Ireland Ltd), che gestisce materialmente i contratti del mercato europeo. In questo modo, il fatturato dei singoli Paesi viene convogliato verso Dublino, dove le tasse sono più basse. A questo punto, però, parte un altro viaggio. Google Ireland Ltd, dopo aver incassato, deve pagare i diritti di licenza a Google Ireland Holding. Ma per farlo passa dall'Olanda, dove un'altra holding fa semplicemente da filtro. Perché? Le norme irlandesi prevedono che se si versano i diritti a società di altri paesi Ue, non si pagano imposte. In questo modo, le somme passano da Google Ireland Ltd (che così riduce gli utili per pagare meno) a Google Ireland Holdings senza incontrare le già larghe maglie del fisco. Per poi essere girate nelle Bermuda.
Amazon in Lussemburgo
Le società che consentono ad Amazon di ridurre il carico fiscale si trova in Lussemburgo. Un accordo del 2003 sottoscritto con lo Stato ha consentito al gruppo di Jeff Bezos di ridisegnare la propria struttura. Prima c'era una piramide in cui le affiliate (con sede in Francia, Gran Bretagna e Germania) e i siti europei venivano controllati da una società con sede negli Stati Uniti. Grazie al restyling, il Lussemburgo è diventato il centro di aggregazione dei profitti generati in Europa. E ha permesso di utilizzare lo stesso meccanismo della doppia società già sfruttato da Google: una (Amazon EU) gestisce i contratti; l'altra (Amazon Europe Holding Technologies) detiene le licenze. La prima, che paga le tasse in Lussemburgo, per alleggerire il bilancio trasferisce alla seconda denaro con importi che l'Ue ha definito “gonfiati e non corrispondenti alla realtà economica”. Si può abbondare, perché tanto la holding, “data la forma giuridica di società in accomandita semplice, non è soggetta all'imposta sulle società”.
A ottobre, Amazon è stata quindi condannata a pagare 250 milioni di tasse non versate. In questo caso, ancor più che nel caso di Apple, ci sono una contraddizione e un paradosso. La contraddizione sta nel fatto che a incassare il rimborso sarà il Paese che ha promosso l'accordo e concesso i vantaggi fiscali poi sfruttati dalla compagnia. Il paradosso riguarda Jean-Claude Juncker: il presidente della Commissione che oggi condanna Amazon era primo ministro del Lussemburgo al momento dell'accordo con il gruppo.
La legge sulla web tax inserita nella Manovra
In Italia la web tax è stata inserita nella Manovra in discussione in questi giorni. Ma dopo l'annuncio di Facebook gli altri giganti del web si adegueranno? Ha ancora senso introdurre questa normativa nel nostro ordinamento? "Ha senso più che mai", spiega in una intervista a Repubblica il senatore Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria, commercio e turismo. "Sono 10 anni che elude il fisco. Guarda caso, Facebook dice, sia pur genericamente, che pagherà le tasse in Italia alla vigilia del voto della Camera e dopo che il Senato ha deciso il rafforzamento della definizione di stabile organizzazione e il varo della web tax sui ricavi. Se avessimo ancora rinviato alla UE o all’Ocse, campa cavallo. E tuttavia attenzione. Facebook farà transitare da Facebook Italia solo i ricavi effettuati con la collaborazione di questa filiale che ha 22 dipendenti. E gli altri, fatturati da Dublino? E poi quali e quanti costi caricherà? L’Agenzia delle entrate farà il suo mestiere. Ma con la web tax al 6% avremo un gettito pieno e garantito: Facebook potrebbe compensare con il credito d’imposta solo gli oneri fiscali e contributivi che sostiene in Italia, IVA esclusa. Oggi non paga nulla. Domani, in un modo o nell’altro, pagherebbe il 6%. Con l’emendamento Boccia sei volte meno".