La gran parte del cibo che arriva sulle nostre tavole ha una catena di rifornimento o di approvvigionamento con un enorme impatto ambientale, soprattutto in termini di emissioni di gas a effetto serra. Per mettere in luce questi meccanismi, a inizio 2019, la Fondazione Eni Enrico Mattei ha avviato la Food Impacts Initiative (F2I) all’interno dell’Area di Ricerca trasversale dell’Agenda 2030.
In questo programma di ricerca, coordinato da Stefania Quaini, il cibo viene approcciato prima di tutto come un prodotto energetico e nell’osservazione degli impatti delle scelte alimentari di tutti noi, nelle diverse parti del pianeta in cui produzione e scambio diventano variabili di modelli di economia (circolare). L'obiettivo principale è racchiuso in una domanda cardine: Quali tecnologie e best practice permettono di avere mercati alimentari globali e sostenibili? Per definirlo è stato avviato uno specifico progetto di ricerca - Food Impacts Initiative - che vedrà maturare i suoi primi risultati nei prossimi mesi in cui si cerca di misurare l’impatto di ogni singolo prodotto presente sul mercato.
“Mangiamo in un pianeta interconnesso. La globalizzazione dei mercati e l’ottimizzazione della logistica di trasporto sono alla base del più importante processo di contaminazione culturale delle tradizioni alimentari, oggi in forte crescita. Il progetto Food Impacts Initiative ha l’impegno di sviluppare proposte che nel breve termine possano fare emergere i numeri di questi nuovi mercati, e suggerire ai vari stakeholder strategie di economia circolare che riescano a bilanciare mercati e impatto ambientale e sociale”, ha spiegato la coordinatrice del progetto Stefania Quaini.
Che questi obiettivi siano davvero irrinunciabili lo attestano i dati e le proiezioni della Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di cibo. Entro il 2050 saremo più di 9 miliardi sulla Terra e dovremo riuscire ad aumentare la produzione di cibo con percentuali variabili comprese tra il 20 e il 60 per cento. In termini di impatto ambientale si tratta di una sfida epocale: già oggi il 75 per cento dei terreni coltivabili è degradato, mentre i sistemi agroalimentari determinano il 75 per cento delle emissioni di emissioni di gas serra. Si stima che ogni persona che segua una dieta di tipo occidentale consumi fino a 3.500 litri di acqua al giorno in maniera indiretta (cioè l’acqua necessaria alla produzione dei cibi).
La sfida è dunque quella di ridurre l’impatto ambientale delle filiere agroalimentari soprattutto intervenendo sui cittadini-consumatori in maniera da renderli maggiormente consapevoli dell’impatto delle loro scelte alimentari. Per questo motivo, anche tramite modelli di Machine Learning, il team di data scientist di FoodSense è al lavoro per lo sviluppo del Trade Impact Index, indice di mercato in grado di quantificare l'impatto dello scambio di ogni alimento su scala globale, in ogni nazione e per ogni periodo dell'anno. Un indice che diventa uno strumento immediato per la comprensione del lavoro che è richiesto al pianeta per portare a scaffale e nel piatto materie prime e prodotti trasformati, e che permette di quantificare nuove best practice.
Al Trade Impact Index (TII) saranno collegate diverse attività di disseminazione volte ad accrescere la consapevolezza delle scelte del consumatore e all’ottimizzazione di scelte di organizzazioni. “Il TII è un indicatore – aggiunge Quaini – che misura la distanza effettiva percorsa da un prodotto in funzione al momento e al luogo in cui viene importato. Le domande a cui vogliamo tentare di dare risposta con questo progetto sono molteplici: è possibile avere un modello di previsioni affidabile per lo scambio di commodity? Se sì, su quale scala temporale è possibile operare? Poi vorremmo capire quanto è possibile ridurre l’impatto negativo con scelte di acquisto alternative e anche ci interessa comprendere quali strategie adottare in periodi di elevata volatilità”.
Il progetto inoltre permetterà di arrivare a conoscere anche l’impatto dei piatti, ovvero delle ricette tradizionali prodotti in ciascun paese e questo grazie all’analisi dei dati sui singoli prodotti che le compongono. “L’analisi dei dati doganali globali incrociata con i costi di trasporto, con l’impronta carbonica per il trasporto, e successivamente con la produzione locale e la composizione delle ricette nazionali, ci consentirà di definire un indice dell’impatto complessivo delle ricette e dei prodotti”. Il punto di caduta di questo progetto di ricerca è una app per smartphone, tablet e desktop che fornirà agli utenti informazioni immediate in termini di impatto sul piatto che sta per mangiare.
“I risultati del Trade Impact Index, oltre che molto utili sotto il profilo scientifico sono anche un formidabile strumento di comunicazione perché permettono di dare contezza immediata dell’impatto ambientale dei prodotti che compongono la nostra dieta. Uno strumento di comunicazione che si rivolge in particolare alle fasce più giovani del pubblico che, pur essendo tra quelle più sensibili al tema della sostenibilità, hanno anche meno consapevolezza che proprio a tavola si può ridurre e di molto la nostra impronta. Solo 4 giovani su dieci sanno cos’è la sostenibilità e solo il nove per cento tra loro la associa al tema del cibo”. Il progetto infine può dar vita anche a una vera e propria etichetta di sostenibilità, una sorta di marchio da applicare a ristoranti e prodotti.