C’è una domanda che gira in rete da quando il ministero dello Sviluppo economico ha deciso di rivedere i parametri degli incubatori certificati di startup: “L’innovazione può misurarsi in metri quadri?”. Tra i punti rivisti dai tecnici, quello che più ha creato malumore è l’ampliamento dei metri quadri necessari per gli incubatori da 400 a 500 metri quadrati. Oggi gli incubatori certificati sono 36. E non si sa quanti di questi potranno ancora godere dei benefici previsti dal legislatore per le palestre di impresa innovativa.
Perché il ministero ha cambiato i parametri?
Ma perché una decisione che a molti sembra poco più che un capriccio burocratico? “Lo scopo di questa modifica è far emergere meglio le eccellenze degli incubatori italiani” ha detto ad Agi Mattia Corbetta, da settembre 2015 membro della Direzione generale per la politica industriale del ministero. “Ad oggi la scena delle startup italiane è ancora molto frammentata e piena di feudi locali. Con questo provvedimento vorremmo coagulare quanto c'è di meglio in alcuni poli, evitando dispersioni territoriali”.
Corbetta: "Ci siamo confrontati con i principali attori nazionali"
Molti operatori però lamentano che, stando ai nuovi parametri, tutti gli incubatori che non abbiano almeno 500metri quadrati di spazio non potranno ottenere la certificazione. Corbetta però difende la scelta del ministero: “Lo spazio fisico è simbolo di qualcosa che c’è in effetti da qualche parte, vorremmo così evitare che singoli consulenti ne approfittino per ottenere vantaggi, magari senza incubare alcuna startup. Inoltre può essere letto come incentivo a chi è sotto quella soglia di allargarsi e incubare altre startup”. “Noi come sempre abbiamo cercato di confrontarci con i principali operatori dell’ecosistema, e le modifiche le abbiamo fatte tenendo in conto le opinioni e le valutazioni di PNI Cube (l’associazione che riunisce gli incubatori delle università italiane, ndr) e APSTI (l’associazione nazionale dei parchi scientifici e tecnologici, ndr)”.
Kruger: "Un delirio tecnocratico"
Ma gli incubatori sono in rivolta. Tra i più attivi in questi giorni c’è Peter Kruger, 46 anni, ceo di Startupbootcamp Foodtech, acceleratore di impresa romano dedicato al mondo del cibo e dell’innovazione: “È un peggioramento di una normativa già per sua natura sbagliata. Siamo l’unico paese avanzato ad essersi inventato una definizione burocratica di startup e di incubatore” accusa Kruger. “Non contenti, abbiamo anche deciso di peggiorarla. Mi pare che chi norma in materia, non abbia la più pallida idea di cosa si intenda per startup in un qualsiasi paese civile, figuriamoci un incubatore o, come nel mio caso, un acceleratore. “Ma la cosa peggiore è che si contravviene alla regola numero uno per attrarre investitori, quella che si insegna anche all’asilo: fornire un quadro normativo chiaro e stabile”.
Un anno fa l’apertura del suo acceleratore in zona San Giovanni è stata fatta proprio per rispettare i parametri voluti dalla legge: 420 metri quadrati. Cosa che garantiva a lui e ai suoi investitori i benefici previsti dalla legge. “E, invece, eccoci qui nuovamente vittime di uno Stato che cambia arbitrariamente parametri e requisiti, senza curarsi minimamente del fatto che ci sono investitori e operatori che, sulla base di parametri e criteri esistenti, hanno deciso di mettere mano al proprio portafogli ed investire”. Kruger boccia totalmente l’aggiornamento dei parametri. Non ci vede nulla di buono. E taglia corto. “Un delirio tecnocratico tutto italico, fatto da signori che pretendono di definire cosa sia avviare una impresa innovativa senza che nessuno di loro abbia mai aperto in vita propria neppure un pizzicagnolo”.
Inguscio: "Incubatore è fatto di persone non di mura"
Qualcosa di buono invece ci vede Francesco Inguscio, 35 anni, ceo di Nuvolab acceleratore d’impresa milanese. Ma qualcosa. La definisce una modifica “agrodolce”, guidata “dalla ragione quando si introducono degli incentivi per promuovere startup che aderiscono a Startup Visa e Startup Hub che sono iniziative che stanno a cuore al legislatore, oppure dove si aumentano il numero di brevetti da raggiungere con le startup incubate”. Ma anche dalla “follia” sul punto che vuole l’estensione a 500 metri quadri degli spazi necessari. “Un incubatore non è fatto di mura ma di persone” continua Inguscio. “Che il legislatore inizi ad entrare più nel merito di cosa sanno fare queste persone e non di quante mura costruiscono: noi siamo costruttori di ponti tra mondi (quello della ricerca e quello dell’industria) e non di mura (di incomunicabilità che erige sistematicamente il legislatore tra se stesso e il mondo reale quando compie delle follie del genere)”.
Ma c’è un’altro punto su cui gli operatori sono tutti uniti: togliere quell’obbligo. Renderlo facoltativo. O abbassare il punteggio che ne consegue evitando che diventi una condizione necessaria per ottenere gli incentivi.
Quali aiuti prevede la certificazione del Mise
Oggi essere un incubatore certificato dal Mise consente alle società di poter usufruire di molte delle agevolazioni destinate alle startup innovative. Tra queste: l’accesso gratuito e preferenziale al fondo di garanzia, la possibilità di poter pagare i dipendenti e collaboratori esterni in equity e una scorciatoia procedurale per ottenere lo startup visa per imprenditori e dipendenti non comunitari. Rimangono invariati nei parametri principali la necessità che le aziende siano startup innovative iscritte al registro delle imprese, il capitale di rischio totale già investito in startup di almeno 500mila euro e che le startup incubate abbiano raccolto da fondi pubblici investimenti o agevolazioni pari a 500mila euro.