Roma - Gli italiani spendono meno rispetto ai primi anni del nuovo millennio. Nel 2015 la spesa media mensile delle famiglie, senza considerare il calo del potere di acquisto, resta inferiore del 2,9% rispetto al 2005 e del 6,3% rispetto al 2008. Va leggermente meglio rispetto al 2014: +0,39%.
Lo si apprende dallo studio della Filcams Cgil-Fondazione Di Vittorio-Tecnè sui consumi delle famiglie italiane negli ultimi 10 anni. Rispetto al 2008, la spesa alimentare è diminuita complessivamente di quasi 17 euro mensili, mentre quella non alimentare di 136 euro. Per quanto riguarda i consumi alimentari le famiglie spendono meno per l'acquisto di olio d'oliva, carne bovina, formaggi, acqua minerale e vino. Sono invece cresciuti i consumi di uova, pollame, selvaggina, di altri olii e birra. Per quanto riguarda le spese non alimentari, le famiglie spendono meno per elettrodomestici, mobili e arredi, prodotti editoriali (giornali, riviste, cd, dvd, libri), per abbigliamento e calzature, per le riparazioni e la manutenzione di oggetti mentre è accresciuta la quota di reddito destinata al trasporto pubblico, le spese per l'abitazione, le utenze e le spese per l'istruzione. Nel 2015 le famiglie italiane hanno speso, in media, 1.440 euro al mese per mangiare; 264 euro per vestirsi, prendersi cura di sè, andare in vacanza; 293 euro per muoversi in città, viaggiare e comunicare; 126 euro per cure mediche, istruirsi e informarsi; 208 euro per le altre spese.
Nel complesso il 57% delle famiglie italiane, negli ultimi anni, ha ridotto la quantità e/o la qualità della spesa alimentare. Se si considerano i consumi non alimentari la quota sale al 72%. La necessità di modificare gli standard di consumi ha colpito soprattutto le produzioni di qualità, in particolare quelle italiane. Fatto 100 la spesa delle famiglie italiane nel 2008 per l'acquisto di formaggi, nel 2015 registriamo 11 punti in meno, -12 per il vino, -23 per l'olio d'oliva, -32 per l'abbigliamento, -16 per le calzature. La metà delle famiglie che ha un reddito mensile netto fino a 1.500 euro mensili dichiara di avere consumi inferiori alle necessità reali. In analoga condizione una famiglia su quattro nella fascia che va tra i 1.500 e i 2.500 euro al mese. La quasi totalità delle famiglie con due o più persone a carico e con un reddito fino a 1.500 euro al mese non riesce a soddisfare bisogni considerati primari. Il 30% delle famiglie verifica prima su internet i migliori prezzi di vendita dei prodotti alimentari. La percentuale sale al 63% quando si tratta di generi non alimentari. L'80% delle famiglie ha pianificato gli acquisti nei periodi in cui i prodotti erano in offerta o in saldo, per un controvalore di circa 153 miliardi di euro, equivalente al 15% della spesa delle famiglie residenti in Italia. Il 18% delle famiglie ha acquistato beni e servizi su internet, mentre il 7% ha acquistato prodotti usati per un controvalore pari a circa 12 miliardi di euro, cioè l'1,2% della spesa complessiva delle famiglie italiane.
Per quanto riguarda la spesa alimentare il 64% delle famiglie predilige la grande distribuzione mentre il 29% il piccolo negozio. Per le produzioni a carattere industriale le famiglie si orientano in maniera ancora più consistente verso la grande distribuzione, mentre i piccoli negozi conquistano quote maggiori di consumatori quando si tratta di prodotti di alta qualità o a carattere artigianale. Il piccolo negozio è preferito al centro commerciale per l'acquisto di profumi di marca, abbigliamento, calzature, biancheria per la casa. I giovani preferiscono il centro commerciale, gli anziani il piccolo esercizio. Per l'acquisto di smartphone, prodotti di elettronica e per l'arredo, il 45% si rivolge al negozio specializzato, al secondo posto l'e-commerce con il 22% di preferenze. Se ci fossero maggiori disponibilità economiche, solo il 29% delle famiglie continuerebbe a spendere come adesso. Il 34% migliorerebbe sia la qualità sia la quantità. Cio' lascia presupporre, a livello teorico, che la spinta alla crescita proveniente dal versante della domanda interna potrebbe arrivare più dai ceti bassi piuttosto che da quelli medi o alti. La maggioranza degli intervistati vorrebbe che i negozi fossero aperti con orario continuato dalle 8-9 del mattino fino alle 20-21 di sera. L'apertura di 24 ore è scelta, invece, solo dal 15%. Nel mezzogiorno il 41% preferirebbe la pausa pranzo contro il 30% della media nazionale. Il 47% del campione vorrebbe i negozi aperti 6 giorni su 7; il 45% li vorrebbe aperti tutti i giorni. Sono le famiglie del centro Italia quelle che più vorrebbero i negozi aperti anche la domenica. Il 93% delle famiglie ritiene, comunque, al di là degli orari, che i lavoratori del commercio debbano essere tutelati sia rispetto alle retribuzioni sia rispetto al tempo libero dal lavoro. Dallo studio emerge che le persone con un reddito pro capite inferiore ai mille euro al mese sono il 28% della popolazione adulta per un totale di 14,3 milioni di italiani. Si collocano soprattutto nella fascia di età sopra i 45 anni e hanno un titolo di studio medio-basso.
Per Maria Grazia Gabrielli, segretario generale della Filcams Cgil, "i cambiamenti che la nostra società ha subito con la crisi degli ultimi anni non possono essere sottovalutati. Abitudini diverse, consumi oculati, i cittadini e le famiglie hanno modificato le loro strategie di acquisto e questo cambiamento puo' essere considerato come strutturale. La diminuzione dei consumi e la contrazione delle entrate hanno portato le aziende del settore a cercare soluzioni per arginare la crisi, troppo spesso individuandole nella diminuzione del costo del lavoro. Riforme del mercato del lavoro, liberalizzazioni degli orari e delle aperture commerciali, assenza di un contratto nazionale di riferimento non hanno, invece, aiutato la ripresa dei consumi. La contrattazione - conlude Gabrielli - resta un momento di confronto importante che non deve essere svilito. Il contratto nazionale deve rimanere il quadro di riferimento normativo, anche per dare risposte sul fronte dei consumi, valorizzando e riqualificando il lavoro". (AGI)