Salmone per il cenone di Capodanno? Sushi per un pasto leggero? Mangiamo sempre più pesce ma purtroppo sempre meno vario. Ne peschiamo tanto, troppo, ma ne buttiamo anche via molto perché non adeguato alle esigenze del mercato e della cucina alla quale ci siamo abituati.
L’insostenibilità della pesca è un problema tra i più urgenti a livello internazionale, come le Nazioni Unite e la FAO non mancano di sottolineare con una robusta mole di dati, studi e rapporti. Uno degli ultimi, però, pubblicato qualche giorno fa e focalizzato sulla regione del Mediterraneo e del Mar Nero, per la prima volta dà qualche indicazione positiva di timido miglioramento della situazione, perlomeno per quanto riguarda proprio l’area mediterranea.
L’overfishing a livello mondiale: sempre più pesce, ma anche sempre più scarto
Nella corsa contro il tempo per garantire da un lato cibo sufficiente ai 9 miliardi di persone che popoleranno la terra entro il 2050, e dall’altro a ridurre l’impatto ambientale associato ad agricoltura e pesca e a combattere gli effetti dell’inquinamento e del cambiamento climatico, le Nazioni Unite hanno lanciato nel 2015 l’Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030.
L’Agenda include 17 obiettivi chiave, uno dei quali è dedicato esplicitamente alla pesca. Si tratta dell’obiettivo 14, che richiama la necessità di lavorare per la conservazione e l’uso sostenibile degli oceani e delle risorse marine.
L’ONU ricorda che quasi la metà dell’attuale popolazione mondiale dipende dal mare per il proprio sostentamento, e che il valore complessivo delle risorse marine e costiere è stimato in circa 3mila miliardi di dollari all’anno, il 5% del PIL mondiale. Ci sono oltre 60 milioni di persone che lavorano nel settore della pesca. Si arriva ai 200 milioni se si prende in considerazione anche tutto l’indotto. Un mercato globale che valeva, nel 2016, ultimo anno per cui abbiamo i dati, oltre 360 miliardi di dollari.
Eppure, grazie a politiche di sussidio della pesca piuttosto sconsiderate, l’impatto delle attività umane sulla vita degli oceani e dei mari è enorme: stiamo rischiando di esaurire le riserve ittiche e distruggendo interi ecosistemi marini e di costa. In parte per via dell’inquinamento, dell’accumulo di plastica e di altri materiali inquinanti, e in parte per il prelievo continuo e non sostenibile di pesci e altri organismi marini, a un ritmo che non consente la riproduzione e quindi il recupero delle popolazioni marine.
Le organizzazioni internazionali hanno così avviato un programma per ridurre e controllare la pesca, per combattere la pesca illegale, non regolamentata, e i metodi di pesca distruttivi e per preservare le aree costiere e marine.
Il Rapporto “State of the world fisheries” 2018, che si riferisce alla situazione globale, indica che nel 2016 sono state prodotte 171 milioni di tonnellate di pesce, il dato più alto di sempre. L’88% è stato utilizzato direttamente per consumo umano, con un raddoppio del consumo globale di pesce dal 1961 a oggi (da 9 kg a circa 20 kg di pesce all’anno per persona).
Oltre 90 milioni di tonnellate derivano dalla pesca diretta, il resto da allevamento. Una pratica, quella dell’allevamento, che è in calo a livello globale ma in netto aumento nei paesi del Sud del mondo, per i quali rappresenta un concreto mezzo di lotta alla fame e un contributo sostanziale alla dieta proteica.
Per molte popolazioni povere infatti il pesce rappresenta oggi oltre il 20% delle proteine assunte. In totale, dunque, il 47% (quasi la metà del volume complessivo) del pesce consumato al mondo viene da allevamento. C’è poi una piccola percentuale di prodotti ittici allevati per altri usi, come la produzione di olio di pesce e la produzione di mangimi per altri allevamenti ittici.
Come vediamo dal grafico qui sopra, il paese che pesca di più al mondo è la Cina. Il mercato dove invece si consuma di più è l’Europa, seguito da Stati Uniti e Giappone. L’Asia è in generale il continente dove si pesca o produce più pesce, con l’85% dei pescatori e allevatori di pesce mondiali residenti in questa regione e il 75% dei pescherecci della flotta globale, che è di 4,6 milioni.
Il dato forse più drammatico dell’intero rapporto riguarda però il tasso di pesca insostenibile, e quindi la percentuale di riserve ittiche intaccate per via appunto dell’overfishing. Tra il 1974 e il 2015, a livello globale, si è passati da un 10% di pescato in modo non sostenibile e quindi in quantità eccessive, a un 33%.
L’incremento peggiore, in realtà, c’è stato secondo la FAO tra gli anni ‘70 e la fine degli anni ‘80. Un leggero miglioramento nello stato di salute delle riserve marine c’è dunque stato, grazie anche a politiche di migliore gestione della pesca a livello internazionale. Ma siamo lontani da un livello di sicurezza e sostenibilità accettabili.
Tra le zone più a rischio, e quindi controllate speciali per la FAO per un eccesso di pesca e la conseguente netta riduzione delle riserve di pesce, ci sono il Mediterraneo e il Mar Nero, il Sud Est del Pacifico e il Sud Ovest dell’Atlantico.
Nel Mediterraneo, ad esempio, ci sono notevoli differenze tra lo stato di salute di alcune popolazioni di pesce e altre. Ad esempio, il tonno viene pescato in modo intensivo e nel 2015 quasi la metà del pescato totale di tonno, oltre il 43%, rientra nei parametri di insostenibilità. Insomma, è in eccesso e rischia di esaurire le riserve ittiche.
Il Mediterraneo e il Mar Nero: timido ottimismo
Ma è proprio il Mediterraneo che fa vedere i primi segnali di miglioramento. Nel corso del Forum della scienza ittica, che si è svolto a Roma dal 10 al 14 dicembre scorso, la FAO ha rilasciato il rapporto sullo “Stato del Mediterraneo e la pesca nel Mar Nero”. Tirando quasi un sospiro di sollievo, a giudicare dal tono dei comunicati e dei commenti, l’organizzazione internazionale sottolinea come per la prima volta si veda finalmente una inversione di tendenza.
Se è quindi vero che questa regione rimane al centro dell’attenzione per l’ipersfruttamento dei mari, la percentuale di pesci pescati in modo insostenibile si è un po’ ridotta in questi ultimi anni, passando dall’88% del 2014 al 78% del 2016. Un calo del 10%, lungi dall’essere sufficiente ma chiaramente un segnale nella giusta direzione.
In generale, si è ridotto il volume complessivo del pescato e quindi la pressione sulle riserve ittiche. Si è passati dai 2 milioni di tonnellate degli anni ‘80 agli attuali 1,2 milioni di tonnellate. Se guardiamo ai dati dell’andamento dal 1970 al 1990 vediamo infatti che il periodo in cui c’è stato l’incremento maggiore è proprio quello fino agli ‘anni 80.
Protagoniste indiscusse di quel periodo la Turchia, l’Italia e l’Unione Sovietica, allora ancora attore principale nel Mar Nero, fino al 1991, anno della sua dissoluzione ufficiale.
Dal 1990 a oggi, cambiano gli equilibri nell’area. In totale, nel 2016, sono state pescate 830mila tonnellate di pesce nel Mediterraneo e 390mila nel Mar Nero. Il grafico sottostante (che fornisce però i dati della produzione totale) mostra chiaramente che la Turchia è ancora protagonista assoluta, con oltre 321mila tonnellate, pescate in gran parte nel Mar Nero ma anche nel Mediterraneo (circa il 20%). Segue l’Italia, con più di 185mila tonnellate.
In totale, sono 830mila le tonnellate di pesce pescato nel Mediterraneo, dove pesca intensamente anche la Tunisia, in netto aumento così come la Croazia. Rimangono stabili ma comunque molto attive Algeria, Grecia e Marocco. Riduce un po’ l’attività la Spagna (che però pesca assai abbondantemente nell’Oceano a nord). Nel Mar Nero sono in azione le repubbliche ex sovietiche, la Federazione Russa e l’Ucraina e assai meno la Georgia, la Romania e la Bulgaria.
I problemi principali: troppo scarto e la pesca accidentale di specie protette o comunque a rischio
A livello globale, un problema che molti ricercatori e associazioni ambientaliste sottolineano è quello degli scarti di pesce pescato, che arrivano a percentuali significative della produzione globale. Lo scarto è dovuto a diverse ragioni, come ad esempio pesce commestibile ma di pezzatura o qualità non in linea con le esigenze del mercato.
Dirk Zeller, biologo della University of Western Australia, a Perth, ha raccolto e analizzato i dati degli scarti in un articolo pubblicato lo scorso anno. Dai circa 5 milioni di tonnellate gli scarti di pesce a inizio anni ‘50, meno del 10% del totale, si è arrivati a scartare quasi il 20% del pescato a fine anni ‘80, con 20 milioni di tonnellate di pesce buttato via già durante le fasi di pesca.
Dagli anni ‘90 a oggi si è invertita le tendenza, tornando complessivamente a percentuali minori del 10% del totale ma con grandi variazioni sia in base alla zona che al metodo di pesca. Oltre il 90% dello scarto infatti deriva dalla pesca industriale e quindi dall’impiego di grandi pescherecci con pesca a strascico mentre i piccoli pescatori tendono a scartare molto meno.
Secondo il rapporto FAO, nel Mediterraneo si scartano circa 230mila tonnellate di pesce all’anno, circa il 18% del totale, mentre nel Mar Nero lo scarto è di circa 45mila tonnellate, quindi tra il 10 e il 15% del pescato. Confermando i dati mondiali, anche qui lo scarto è maggiormente associato alla pesca a strascico, che può arrivare a eliminare il 40% del pescato, e molto meno con attività di pesca su piccola scala, dove è meno del 10%.
Nel Mediterraneo e nel Mar Nero si pescano soprattutto sardine, acciughe, aringhe e altri pesci simili, quelli comunemente detti “pesce azzurro”. Quasi la metà del pescato appartiene a questa categoria. C’è però maggiore varietà di specie pescate rispetto ad altre zone del mondo e non ci sono grandi stock o riserve costituite da un’unica specie. Oltre al pesce propriamente detto, si pescano anche molti molluschi e crostacei. Importante dal punto di vista dell’equilibrio ambientale è anche la questione delle catture accidentali, che mettono a rischio specie protette o comunque vulnerabili, come ad esempio le tartarughe marine, spesso intrappolate nelle reti, o alcuni squali o anche altri pesci come le razze e i rombi non obiettivo di quella partita di pesca.
Il futuro: una pesca a misura di ambiente
Se la strada intrapresa è quella giusta, sottolinea la FAO, è necessario proseguire in questa direzione. Tenere sotto controllo e monitorare le flotte che circolano nella regione del Mediterraneo e del Mar Nero, promuovendo una pesca sostenibile e combattendo l’illegalità.
Tra il Mediterraneo e il Mar Nero circolano 86.500 pescherecci. Erano più di 92mila nel 2014. I dati sono senz’altro sottostimati, perché ci sono anche molte piccole imbarcazioni che non è facile conteggiare e ci sono paesi i cui dati non sono facili da verificare, come ad esempio la Libia.
Oltre alle navi appartenenti ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo e sul Mar Nero, ci sono anche flotte di paesi terzi, come il Giappone, che ha quasi 200 pescherecci autorizzati a pescare nelle nostre acque ma che non sta operando nella zona in questi anni.
Complessivamente, come vediamo nel grafico qui sopra, i paesi con il maggior numero di pescherecci sono la Turchia, la Grecia, la Tunisia e l’Italia. Se ragioniamo in termini di capacità di pesca, invece, ai primi quattro posti ci sono Turchia, Italia, Egitto e Tunisia.
Un altro dato rilevante è quello dell’età media della flotta, che si riflette poi nella tipologia di navi e nei materiali con cui sono costruite: nelle flotte più vecchie prevale il legno, in quelle più recenti la fibra di vetro. La flotta mediamente più giovane è quella turca, con un’età media di 22 anni, mentre quella più vecchia è quella albanese, con un’età media di 43 anni.
Il comparto della pesca è parte importante dell’economia della regione Mediterranea, con circa 250mila pescatori e un valore economico del settore, tra vendite dirette e indotto, che arriva a più di 6 miliardi di euro. L’Italia rimane uno dei paesi dove il valore delle vendite di pesce rimane più elevato e costituisce circa il 30% del totale del mercato, stimato nel suo insieme attorno ai 2,4 miliardi di euro. Seguono Turchia, Egitto, Spagna, Tunisia, Grecia e Algeria.
C’è però una grande differenza tra la capacità di impiego delle navi più grandi e quelle più piccole. Quattro paesi rappresentano oltre il 55% degli impiegati del settore: la Tunisia, con il 19% del totale, la Turchia con il 13%, l’Algeria con il 12% e l’Italia con il 10%. La gran parte degli occupati del settore, circa il 60%, lavora su pescherecci di piccole dimensioni ma guadagna molto meno, fino alla metà, rispetto ai pescatori impiegati su navi più grandi.
Eppure la pesca di piccola scala è quella che ha maggiore valore ambientale e culturale. Non solo rispetta di più l’equilibrio dei mari, spreca meno pescato e mette meno a rischio altre specie, ha anche un’importante ricaduta economica sulle popolazioni locali e sullo sviluppo delle comunità di costa.
Per questo, il rapporto FAO conclude sostenendo, tra le altre misure e strategie di controllo di medio e lungo periodo, l’importanza di studiare in modo più approfondito questa filiera di piccola pesca e di mercato, raccogliendo più dati e fornendo maggiori strumenti di formazione e di gestione economica. Ma puntando anche su una maggiore consapevolezza dei consumatori, che alla fin fine sono quelli che scelgono il menù al ristorante o il pesce da preparare per cena.