Sull’Italia incombe il possibile aumento dell’Iva, l’imposta sul valore aggiunto che si paga su prodotti e servizi. L’attivazione delle clausole di salvaguardia il prossimo anno farebbe passare l’aliquota intermedia dall’attuale 22 al 25,2% e quella ridotta dal 10 al 13%. Per scongiurare questo scenario, considerato concreto nell’ultima nota congiunturale dell’Ufficio parlamentare di bilancio, il governo Conte è costretto a reperire 23,1 miliardi di euro entro il 2020.
E c’è chi ha pensato, a proposito delle recenti polemiche su Bankitalia, che il governo gialloverde avesse puntato alle risorse auree della Banca Centrale, stimate in 85 miliardi, proprio per finanziare le clausole di salvaguardia in scadenza. Un aumento dell’Iva produrrebbe, infatti, una stretta dei consumi e sarebbe un ennesimo contraccolpo per l’economia, di recente entrata in recessione tecnica.
Il conto da pagare
Al centro del confronto con Bruxelles, in occasione dell’approvazione della legge di bilancio 2019, un punto non secondario era dettato dalle clausole di salvaguardia. Per evitare lo scatto dell’Iva nel 2019 l’Italia avrebbe dovuto stanziare 12,5 miliardi per l’anno in corso, 19,2 per il 2020 e 19,6 per il 2021.
Un conto salato da pagare, ereditato dai governi precedenti, ma che l’accordo portato a casa dal premier Conte non ha migliorato. Se infatti per il 2019 lo stanziamento di 12,5 miliardi (a deficit) è stato confermato, nei due anni successivi l’Europa ha chiesto 13,1 miliardi in più, a garanzia del finanziamento delle due misure più rappresentative del contratto di governo M5S-Lega, ossia il Reddito di cittadinanza e Quota 100.
L’esecutivo Conte si trova, quindi, a dover recuperare un totale 51,9 miliardi nel biennio 2020-2021, perché oltre ai 23,1 miliardi del prossimo anno, dovrà trovarne altri 28,9 entro il 2021 per evitare un ulteriore aumento dell’aliquota Iva intermedia dal 25,2 al 26,5%. Sempre che futuri interventi del legislatore non cambino questo scenario.
Cosa sono le clausole di salvaguardia
Le clausole di salvaguardia sono delle norme poste a tutela dei conti pubblici. Tecnicamente, esse prevedono maggiori entrate nelle casse dello Stato attraverso un aumento delle imposte o un taglio delle spese. Aumenti e tagli che, però, non entrano in vigore subito ma in anni successivi. Ovvero, esse vengono introdotte da una legge in un determinato anno, ma si legano a un impegno programmatico per gli anni a venire. Di solito, infatti, sono scaglionate nell’arco di tre anni perché seguono l’impianto triennale della legge di bilancio.
Se i governi recuperano il gettito previsto in altri modi, ad esempio con privatizzazioni, investimenti sui mercati finanziari o altro, le clausole non si attivano. La mancata attivazione scongiura l’aumento delle imposte o il taglio delle spese. Come funziona? Se ho una clausola da 4 miliardi, ovvero una norma che mi aspetto porti nelle casse statali 4 miliardi per esempio con l’aumento dell’Iva, o incasso quei 4 miliardi in altro modo e cioè “sterilizzo” la clausola per l’anno in corso o altrimenti la clausola viene attivata e quindi l’aliquota aumenta.
I vantaggi della loro introduzione sarebbero principalmente due: il primo è che attraverso queste norme il Paese mostra formale interesse al rispetto degli impegni europei, in particolare il pareggio di bilancio. Il secondo è che queste clausole garantiscono di prendere tempo per reperire risorse. Come vedremo, però, le scelte di politica economica hanno portato a un cortocircuito che ha finito per snaturare la natura di questo strumento. Soltanto l’Italia tra i Paesi europei ha introdotto meccanismi di questo tipo.
Chi le ha introdotte
Le primissime clausole di salvaguardia risalgono al 1998, ma in quel caso si trattava di meri strumenti contabili dalle somme irrisorie. Il primo utilizzo consistente si ha, invece, nell’agosto del 2011. Sono gli ultimi mesi del governo Berlusconi IV, lo spread sfiora quota 400 e l’Italia è a rischio default. Come si legge nella nota del Centro Studi Confindustria (d’ora in poi, CSC) “Clausole di salvaguardia alla deriva”, per rassicurare i mercati sulla solvibilità del debito pubblico quel governo fu costretto a varare una doppia manovra correttiva. Così nel decreto 138/2011, che contiene anche un aumento dell’aliquota Iva dal 20 al 21%, viene inserita una clausola di 4 miliardi per il 2012, 16 per il 2013 e 20 per il 2014. Se i primi 4 miliardi non fossero stati reperiti entro il 30 settembre del 2012, sarebbero scattati tagli delle agevolazioni fiscali per una somma equivalente.
Salito pochi mesi dopo a Palazzo Chigi, il premier Mario Monti vara il decreto Salva Italia e conferma il provvedimento su base triennale, sostituendo il taglio delle spese con un aumento dell’Iva. Se lo Stato non fosse riuscito a recuperare questi soldi sarebbe pertanto scattato un aumento dell’aliquota dal 20 al 21% nel 2013 e un ulteriore 0,5% dal 2014. L’intenzione era rassicurare i mercati sul fatto che l’Italia avrebbe avuto i conti in ordine entro quella data. Nel 2012 Monti trova le coperture e sterilizza la clausola di quell’anno. Nel 2013 e nel 2014 ne riduce il gettito per un totale di 6,3 miliardi sui due anni.
Dalla prima alla seconda clausola
A giugno del 2013, il neo-esecutivo di larghe intese guidato da Enrico Letta eredita la clausola berlusconiana a sua volta modificata da Monti. A luglio 2013 l’esecutivo Letta rimanda l’attivazione della clausola rinunciando a circa un miliardo. La clausola si attiva poi ad ottobre, portando l’aliquota Iva intermedia da 21 all’attuale 22%, generando per il 2014 un gettito di 4,2 miliardi a fronte dei 20 previsti dal decreto estivo del 2011: ciò significa che per quell’anno 15,8 miliardi furono coperti soprattutto da tagli e spending review. Questo scatto segna di fatto la fine della storia della prima clausola di salvaguardia.
Infatti ben presto inizia la storia di una nuova clausola, introdotta dallo stesso governo Letta. Nella legge di Stabilità del 2014 ne viene infatti creata una nuova che prevede aumenti di imposte e tagli alle agevolazioni fiscali per generare un gettito aggiuntivo di 3 miliardi per il 2015, 7 per il 2016 fino a un’assestamento a regime di 10 miliardi per il 2017. La clausola viene messa a garanzia di un impegno pubblico al recupero di risorse attraverso una revisione della spesa pubblica. Per questo motivo è detta clausola sulle tax expenditures.
La fine della seconda e l’avvio della terza clausola
Arriviamo così al 2014. Matteo Renzi, neo presidente del Consiglio, eredita la clausola del governo Letta. Ne sterilizza gli effetti per il 2015 con 3 miliardi stanziati totalmente in deficit. Per gli anni 2016 e 2017 la clausola Letta viene di fatto abrogata, coprendo le entrate previste un po’ a deficit e un po’ con l’introduzione di una nuova clausola di salvaguardia, la terza, quella con la quale si sta confrontando anche il governo gialloverde in carica.
Con questa terza e ultima clausola introdotta dalla Legge di Stabilità 2015 gli importi promessi lievitano, diventando 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 nel 2017 e 22 a regime nel 2018. A garanzia viene posto un aumento dell’Iva di due punti nel 2016, di un punto percentuale aggiuntivo nel 2017 e di un ulteriore 0,5% nel 2018.
Gli scatti, però, non si verificheranno perché sia lo stesso Renzi sia i successori Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte sterilizzano e modificano la clausola più volte. Come riporta il CSC, al momento sono sei le modifiche apportate alla clausola renziana, che per l’anno 2019 è stata sterilizzata dall’esecutivo M5s-Lega totalmente in deficit - ovvero, senza tagli o coperture reali - per un totale di 12,5 miliardi.
Il finanziamento delle clausole in deficit: una contraddizione
Secondo il documento del CSC si è ormai concretizzata una totale trasformazione. Da strumenti di finanza pubblica volti a ridurre il deficit strutturale, le clausole sono ormai utilizzate per rimandare decisioni impopolari scaricando la responsabilità delle stesse sui governi successivi.
A renderle un elemento destabilizzante, creando ulteriori incertezze sui conti pubblici, è la loro sterilizzazione in larga parte a deficit. Un escamotage a cui è ricorso in minima parte il governo Monti, ma invece fortemente utilizzato dai governi Renzi-Gentiloni-Conte. Non a caso, proprio a partire dal 2015 - quindi al secondo anno dell’esecutivo dell’ex segretario Pd - il ricorso al deficit per sterilizzare le clausole si è nettamente impennato e nemmeno i cambi di esecutivo hanno interrotto questa tendenza.
Secondo l’elaborazione fornita dal CSC dal 2015 al 2019 è stato sterilizzato a deficit l’80% dell’ammontare delle clausole, mentre nel triennio 2012-2014 questa quota era nettamente inferiore. Per Lorena Scaperrotta, tra le autrici della nota, si arriva al paradosso che «se ogni volta il governo è costretto a coprire le clausole di salvaguardia in deficit, tanto vale che finanzi in deficit direttamente le misure». Uno strumento che doveva garantire gettito o, perlomeno, un disavanzo limitato, è stato trasformato nel suo contrario, nonché un meccanismo che contribuisce a creare incertezza sull’economia italiana.
Cosa fare con le clausole?
Nella Nota, CSC ha chiesto al governo Conte di concordare con l’Europa una strategia di uscita dal sistema delle clausole, perché come ha spiegato il dirigente Alessandro Fontana «da un certo punto in poi le clausole non sono più state rispettate. Questo, invece di rassicurare o di rappresentare il rispetto degli impegni, ha finito per creare solo confusione. Ogni anno, infatti, nessuno sa a quanto ammonterà il deficit». Da elemento di tutela dei conti, le clausole sono diventate spade di Damocle che, finanziate a deficit, possono far saltare il già delicato accordo sul rapporto deficit/PIL e con esso il rispetto dei vincoli e la credibilità sui mercati.
Inoltre, dal 2015 l’Unione europea non include più nei suoi calcoli i possibili introiti aggiuntivi dell’aumento dell’Iva, ossia ha smesso di considerare gli effetti positivi delle clausole di salvaguardia nelle sue previsioni macroeconomiche. Questo sottolinea la sua sfiducia nei confronti dei diversi esecutivi italiani nel produrre i gettiti preventivati. Allo stesso tempo, però, la Commissione all’attuale governo ha chiesto a garanzia cifre più alte associate alle clausole 2020 e 2021, dimostrando una certa ambiguità nel valutare la reale affidabilità italiana.