Le multinazionali digitali realizzano il 70% delle proprie vendite fuori dal proprio paese, ma solo il 40% delle loro attività è condotto all’estero. Una situazione assai diversa rispetto alla media che si traduce in un impatto diretto meno visibile in termini di investimenti e posti di lavoro creato al di fuori della madrepatria. Lo afferma il World Investment Report 2017 pubblicato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), che comunque sottolinea come l’economia digitale sia un fattore chiave per la crescita e lo sviluppo economico.
Il peso dell’ICT nella produzione internazionale è raddoppiato
Nell’arco di soli cinque anni il numero di aziende Information e Communication Technology (ICT) che comparivano nella lista delle top 100 stilata da UNCTAD, che le classifica in base alle attività estere, è praticamente raddoppiato, passando dalle 11 presenti nel 2010 alle 19 del 2015. E ad aumentare è significativamente il comparto tech, ovvero quello delle nuove multinazionali digitali, mentre le telecom hanno mantenuto numeri simili.
L’aspetto principale sottolineato dagli analisti di UNCTAD è che tra 2010 e 2015 gli asset di questa ventina di aziende sono aumentati del 65%, del 30% sono aumentati i dipendenti e anche i ricavi operativi. Nello stesso periodo questi stessi indicatori per le altre aziende nella top 100 sono rimasti praticamente piatti.
“Questa rapida crescita per le megacorporation del tech”, si legge nel rapporto, “è una delle tendenze più significative di tutto il settore a livello globale”. Nel 2010 si trattava ancora di un peso relativo e non particolarmente diverso da quello del 2005. Oggi le megacorp digitali della lista “hanno superato le grandi multinazionali tradizionali e le telecom, con asset che crescono di oltre il 10% all’anno”, mentre per gli altri gruppi la crescita sembra essersi arrestata e stabilizzata.
Sono le caratteristiche di una nuova tipologia di multinazionale che nel rapporto vengono indicate come “virtuali”, nel senso che non producono beni materiali, ma lavorano completamente nell’immaterialità, come per esempio Google e Facebook.
La concentrazione geografica e asset leggeri
La maggioranza di queste multinazionali digitali ha casa nei Paesi economicamente più avanzati e in particolare negli Stati Uniti, dove risiedono i due terzi del totale. Gli analisti dell’UNCTAD sottolineano come questa predominanza geografica, unita alla tendenza di queste aziende a trattenere nei paesi d’origine gli asset più importanti, si riflette anche nella distribuzione delle sedi decentrate - le filiali, per così dire - che risulta distorta a favore di un gran numero di aziende con sede in America. Solo la metà delle sedi delle megacorp digitali si trova all’estero, mentre negli altri settori industriali questo dato si aggira attorno all’80%.
Tale caratteristica di questi nuovi leader della scena economica mondiale risulta ancora più evidente dal confronto tra la quota di vendite effettuate all’estero e la quota di attività condotta all’estero tra i diversi settori industriali. La tendenza è un indice attorno a 1, che varia tra l’1,3 del settore dell’auto allo 0,8 del settore petrolifero, ma balza a quasi due (1,8) nel caso delle multinazionali del tech. Con una semplificazione, si potrebbe dire che ricavano dal mercato estero molto di più rispetto a una internazionalizzazione più contenuta in confronto ad altri settori industriali.
“Il risultato è che la crescita delle multinazionali dell’economia digitale”, si legge nel rapporto, “potrebbe invertire il trend di investimenti diretti all’estero che abbiamo osservato negli ultimi decenni verso la concentrazione in alcuni grandi Paesi d’origine”.
La preoccupazione è, cioè, che tendenzialmente i Paesi che non ospitano le case madri di questo tipo di aziende non godano dei loro investimenti, ma diventino principalmente parte del loro mercato. Cioò avviene, tra l’altro, in una cornice generale in cui gli investimenti diretti nelle economie in via di sviluppo si sono contratti del 14% rispetto alla rilevazione precedente.
Le riserve di liquidità e i loro vantaggi
Nonostante i loro asset esteri tutto sommato limitato, multinazionali tecnologiche e digitali trattengono all’estero una parte consistente delle proprie entrate sotto forma di liquidità. Si tratta di una fetta che è andata aumentando negli ultimi anni, al punto che oggi hanno praticamente raggiunto gli altri settori. A cambiare, però, è la velocità della crescita: con un trend pari al 28% per il settore tech e digitale, contro l’8% delle altre multinazionali.
Ancor più significativa è la differenza in termini di ricavi. Per Google, Facebook e soci la quota estera del 2015 è pari al 62%, mentre la media è del 23% negli altri settori industriali. Inoltre: secondo i dati del rapporto UNCTAD, le tech corp hanno riserve di liquidità doppie rispetto alle alle multinazionali tradizionali, ma questo non si traduce in investimenti consistenti nei paesi dove quei guadagni vengono generati per aumentare la produttività.
“L’obiettivo principale è piuttosto minimizzare l’incidenza delle tasse”, scrivono gli analisti UNCTAD, “posticipando indefinitamente il pagamento della rettifica fiscale per il rimpatrio di ricavi esteri negli Stati Uniti”. Con questo sistema, nel 2015 la stima dell’incidenza effettiva delle tasse per i giganti del digitale è calcolata dagli estensori del rapporto nel 19% a fronte del 27% per le altre multinazionali analizzate.
Cosa riserva il futuro
Guardando al mondo dal punto di vista dello sviluppo futuro, una prospettiva centrale nel lavoro che svolge la Conferenza, la digitalizzazione dell’economia offre anche opportunità per la crescita e lo sviluppo.
La trasformazione del processo produttivo e della stessa struttura aziendale che si può vedere nelle grandi corporation digitali può servire da indicatore di un possibile sviluppo futuro, quando cioè a essere digitalizzate saranno aziende che operano in settori tradizionalmente legati al mondo materiale. “Al momento chi agisce all’interno dell’economia digitale è sostanzialmente il settore privato”, precisa James Zhan, direttore della divisione Investimenti e Imprese di UNCTAD. “Gli stati si stanno attrezzando e andranno tutti in questa direzione, ma non è ancora uno scenario del presente”.
Il trend che si può intravedere è quello di un numero minore di investimenti in produzioni centralizzate e sostenute dall’analisi di big data. Ma allo stesso tempo un maggiore outsourcing dei servizi, una produzione che potenzialmente è più distribuita e resa possibile da tecnologie in continua evoluzione. Si potrebbe aprire uno scenario in cui anche il rapporto tra fornitori e acquirenti si va trasformando sulla scia di questi cambiamenti.
Sul fronte degli investimenti potremmo assistere a un cambiamento, con l’economia digitale che si baserà di meno su fattori tradizionali dell’operato delle multinazionali, come per esempio il lavoro a basso costo, e un’accentuazione della ricerca di competenze ed energia a buon mercato. Questo scenario, sottolinea il rapporto, avrà sicuramente un impatto non solo sulle economie più sviluppate, ma anche sui paesi economicamente più deboli, con un potenziale cambiamento del rapporto con le locomotive economiche mondiali.
Ma oltre a una serie di politiche attente a questo mutamento in atto, avverte il rapporto, deve essere risolto il grande gap di accesso alla stessa Internet che rende possibile tutto questo. Nelle economie in sviluppo si registra ancora un sensibile “adoption gap”: esiste cioè una fetta della popolazione che ha a disposizione Internet ma non lo usa nella propria attività economica, sintomo che gli investimenti in infrastrutture non sono sufficienti ma devono essere accompagnati da altri dispositivi per il sostegno dell’adozione di nuove tecnologie.
A questo gap, se ne affiancano altri due. Il primo è quello che viene definito “3G upgrading gap”, e misura la fetta di popolazione che è raggiunta dalla copertura 2G per la connessione cellulare, ma non ha a disposizione la ben più performante e importante 3G per le proprie attività. Infine, c’è ancora un altro gap da colmare, ed è quello che riguarda le persone che non hanno accesso nemmeno alla rete 2G. Senza uno sforzo per il raggiungimento di una connettività universale, i vantaggi della digitalizzazione dell’economia continueranno a essere distribuiti in modo ineguale.