Qual è il peso dello sviluppo umano sulle risorse naturali? E quanto è capace il pianeta di rinnovarsi e quindi di ridurre gli impatti dello sviluppo umano? L’impronta ecologica, personale o collettiva, è ormai un indicatore affermato e riconosciuto che misura il rapporto tra quante risorse naturali consumiamo e quante ne abbiamo a disposizione.
Un registro di buoni e cattivi
Applicando questo calcolo a un intero Paese possiamo fare una valutazione piuttosto accurata degli effetti delle politiche economiche e ambientali. Adesso, grazie alla pubblicazione dell’Ecological Footprint Explorer, un massiccio database che raccoglie i dati sull’impronta ecologica di oltre 200 Paesi dal 1961 al 2013, questa misura diventa anche una stima del peso dello sviluppo economico dal secondo dopoguerra a oggi. I dati sono resi disponibili dal Global Footprint Network, organizzazione internazionale di ricerca no profit con sede in California, Svizzera e Belgio, che dal 2003 mette a punto metriche e protocolli per valutare il peso dello sviluppo e degli stili di vita.
Come si misura l'impronta ecologica
L’impronta ecologica si misura in consumo di ettari globali (gha), una misura che include tutta la terra e l’acqua biologicamente produttiva consumate per produrre beni e servizi. La stima del consumo prende in considerazione l’intero ciclo di produzione, dalla materia prima al prodotto finito, inclusa l’energia necessaria a produrlo e distribuirlo e le perdite e sprechi lungo tutta la catena produttiva. Per ‘biologicamente produttive’ si intendono le terre e le acque utili a produrre biomassa e quindi a rigenerare risorse naturali che nel loro insieme costituiscono la biocapacità di un ambiente.
La sostenibilità è andata perduta 40 anni fa
Analizzando il rapporto tra impronta ecologica e biocapacità, vediamo che fino agli anni ‘70 lo sviluppo economico globale era complessivamente sostenibile. Un anno significativo è il 1970 poiché da quella data la popolazione terrestre inizia a consumare risorse a un ritmo non più bilanciato dalla capacità del pianeta di rinnovare queste stesse risorse.
La differenza tra impronta ecologica e biocapacità sostanzialmente dà la misura di quanta terra sarebbe necessaria a sostenere lo sviluppo Paese per Paese. La biocapacità è una misura che varia nel tempo, ma non con grandi differenze. Nel 2013, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, la Terra aveva una biocapacità pari a circa 12 miliardi di ettari di terre e acque produttive. Se dividiamo questo numero per i 7 miliardi circa di abitanti del pianeta vediamo che a disposizione di ciascuno ci sono circa 1,72 ettari globali di superficie produttiva disponibile.
Il contributo più significativo all’impronta ecologica nel tempo, oltre alle terre consumate per edificare o produrre cibo e alle acque sfruttate per la pesca e altri usi, arriva dal consumo di combustibili fossili. Nel calcolo fatto dal Footprint Network, questo dato è convertito in quantità di terra necessaria ad assorbire la CO2 prodotta a livello globale.
Chi consuma di più e chi di meno
Ovviamente non consumiamo tutti allo stesso modo: ci sono Paesi ad altissima impronta ecologica, che usano molte più risorse di quanto ne hanno a disposizione, e altri che invece sarebbero sostanzialmente a credito, anche se nel complesso il bilancio globale del pianeta rimane comunque ben negativo.
Tra i Paesi a minore consumo ci sono quelli africani. Ma il continente africano è anche quello con la crescita demografica più tumultuosa al mondo. E così, nonostante il basso livello di sviluppo di molte aree e la grande disponibilità di risorse, anche l’Africa ha cominciato in anni recenti a consumare di più, in termini di impronta pro capite, rispetto alla propria biocapacità. Ci sono Paesi come lo Zambia o il Mozambico, dove l’impronta è molto bassa. E poi c’è la Nigeria la cui impronta ecologica è drammaticamente aumentata negli ultimi 50 anni, passando da 0,84 ettari globali pro capite a 1,07. Per contro però, anche grazie all’aumento della popolazione e allo sfruttamento di molte risorse, la biocapacità pro capite è scesa da 1,07 a 0,64.
Al contrario, il Sudamerica mantiene un bilancio sostanzialmente positivo, con una biocapacità che è passata da 18 ettari pro capite a inizio anni ‘60 a 7.5 nel 2013, ma una impronta ecologica che va da 2,61 a 3 ettari pro capite nello stesso periodo.
La Cina consuma molto più di quanto può rigenerare
Due grandi protagonisti delle discussioni sulla necessità di ridurre le emissioni e contrastare i cambiamenti climatici in questi anni sono stati Stati Uniti e Cina, entrambi grandi inquinatori con storie ben diverse di sviluppo alle spalle. I primi consumavano ben più di quanto a loro disposizione già a inizio anni ‘60 e hanno iniziato ad attuare politiche di risparmio solo negli ultimi anni. La Cina, al contrario, è rimasta sostanzialmente in equilibrio fino a inizio anni ‘70. Ma con il nuovo millennio lo sviluppo cinese sta consumando risorse ambientali a un ritmo davvero sostenuto a fronte di una biocapacità piuttosto ridotta.
In Europa il bilancio è negativo, ma lo è in modo molto più marcato nei Paesi dell’Europa occidentale che non quando consideriamo l’intero continente. Anche qui le differenze tra Paese e Paese contano molto. Confrontando Italia, Francia e Germania, ad esempio, notiamo andamenti molto diversi.
- La Germania partiva nel 1961 con 1,37 ettari globali di biocapacità pro capite e una impronta di 4,28. Un rapporto di 1 a 3 circa. Dopo la riunificazione, a inizio anni ‘90, la biocapacità tedesca aumenta un po’ e arriva al 2013 a 2,24 ettari globali pro capite. L’impronta, al contrario, cresciuta fortemente nel corso degli anni ‘80, diminuisce dal 1993 e arriva nel 2013 a 5,46. Il rapporto è di circa 1 a 2.
- La Francia, che ha a disposizione un territorio più ampio per una popolazione meno numerosa, aveva una biocapacità di 2,21 ettari a persona nel 1961, contro una impronta ecologica di 4,22. Entrambe sono cresciuta, arrivando nel 2013 a 2,91 di biocapacità e 5 di impronta ecologica, ma il rapporto è rimasto sostanzialmente invariato ed è inferiore a 2.
- L'Italia partiva già molto svantaggiato negli anni ‘60, con una impronta di 2,34 e una biocapacità di 1. Oggi la biocapacità italiana è rimasta uguale mentre l’impronta è aumentata moltissimo ed è arrivata a superare 5 ettari pro capite nel 2011, per poi scendere a 4,5. Ci si può chiedere se questa flessione sia frutto della crisi economica e quindi della stagnazione della crescita o se dipenda anche dal risparmio energetico e dall’aumento dell’uso di energie rinnovabili.
Un aiuto alla politica
I dati raccolti non hanno solo una funzione descrittiva. Servono anche e soprattutto a individuare possibili soluzioni che riducano gli impatti negativi sull’ambiente. La ricaduta più interessante di questo lavoro è infatti quella di poter contribuire a disegnare politiche di sviluppo economico più sostenibili a livello di città o interi Paesi utilizzando simulazioni che partono dalle migliaia di indicatori utilizzati per stimare gli impatti e quindi l’impronta ecologica. Un contributo tanto più utile di fronte alla grande sfida di riduzione degli impatti dei cambiamenti climatici e alla necessità di abbattere le emissioni di CO2 in atmosfera, il consumo di acqua e di suolo, la deforestazione.
Il Global Footprint Network ha lavorato già con diverse città, come San Francisco o Calgary, prima città al mondo a darsi obiettivi concreti di riduzione dell’impronta ecologica. Al lavoro ci sono anche i governi di alcuni Paesi, dalla Svizzera all’Ecuador. Un caso interessante è quello degli Emirati Arabi Uniti che dopo aver appreso di essere uno dei Paesi con la più alta impronta ecologica pro capite hanno avviato un lavoro di revisione delle politiche ambientali con un’ampia task force internazionale per migliorare il proprio ranking.
Uno degli obiettivi più interessanti è quello di raggiungere il cosiddetto decoupling, ossia la dissociazione tra il trend di crescita economica, misurato in termini di PIL, e quello di consumo delle risorse misurato dall’impronta ecologica. Sia Germania che Francia presentano un trend di questo tipo negli ultimi anni, come vediamo nel grafico qui sotto. Come già detto, è difficile fare qualsiasi considerazione sull’Italia, data la stagnazione della nostra economia.
Il Paese che ha ottenuto i migliori risultati in termini di decoupling, e che quindi sta più rapidamente scollegando la crescita economica dall’andamento dell’impronta ecologica, sono gli Stati Uniti. Grazie alle politiche ambientali di Obama. Rimane da chiedersi cosa succederà ora con il cambiamento repentino di rotta voluto dal nuovo presidente americano Donald Trump.