C ompie cinquecento anni la donna più bella del Rinascimento. Con il suo sorriso ed il suo sguardo in cui pudore e malizia si mescolano, a generare seduzione, e con quel gesto anch’esso falsamente modesto, a coprirsi il seno che altro non fa se non attirare lo sguardo proprio lì, dove la decenza non vorrebbe fosse. Pronta, come la Viola di Metello o una ragazzetta cresciuta troppo in fretta in un film di Pasolini, a coglierti nell’attimo del cedimento e a fulminarti con un “che fai, guardi?”. Anche Raffaello cedette, e non solo guardò: nel 1518 dette la prima pennellata del suo ritratto, che noi conosciamo come La Fornarina, e se ne innamorò al punto che non se ne volle più staccare. E così si tenne in casa, fino alla morte due anni dopo, sia il quadro, sia una donna che non ci si mise molto a indentificare come l’ispiratrice di quel capolavoro.
Certo, a immaginare che la Fornarina abbia cinquecento anni si è colti da un sottile velo d’angoscia, come quando si pensa che se fosse viva Marilyn Monroe avrebbe 92 anni e che, nel suo piccolo, Raffaella Carrà ne sta per compiere 75. Se gli eroi sono tutti giovani e belli, lei che della bellezza e della gioventù è l’epitome non dovrebbe mai appassire, nemmeno nella mente: certe visioni è meglio lasciarle ai fiamminghi ed ai tedeschi che di Raffaello furono contemporanei.
Amava talmente tanto la sua Fornarina, Raffaello, che la ritrasse con un nastro che le cinge il braccio, e su quel nastro blu scrisse in oro il proprio nome, e sulla testa, appena visibili in uno sfondo scuro a far risaltare la carnagione chiara, fronde di mirto, melo cotogno ed alloro: tre piante che significano fedeltà in amore, gloria immortale e fecondità. E poi, visibile appena sotto un fazzoletto annodato a turbante sui capelli corvini, una perla: Margherita, in greco (come ben sapeva la consorte di un Re d’Italia, che se ne faceva regalare a giri interi), e di qui nacque una leggenda nella leggenda. Generate, entrambi, da un atto che di vero amore doveva, effettivamente, essere.
Nel 1520 Raffello passa a miglior vita. Ma prima, sentendo che i suoi giorni sono lì lì per esaurirsi, chiude i conti, e questa donna misteriosa che ha in casa si vede assegnare una vera e propria dote, che le basterà per una serena vecchiaia che passerà in un convento a Trastevere. Di lei non si conosce il nome, e neppure il paese: verrà identificata come Margherita Luti, di padre fornaio e senese nonché abitante in via del Governo Vecchio, all’ombra del palazzo degli Orsini. E si fantasticherà per secoli di questa giovane, immaginandosi l’incontro del Maestro e Margherita per i vicoli della Roma rinascimentale o addirittura sulla sponda del Tevere, dove la ragazza sarebbe stata intenta a fare il bagno nella stessa tenuta della Venere del Trono Ludovisi. Il Romanticismo non a caso ci regalerà della coppia raffigurazioni un po’ melense, e di sicuro filologicamente immaginifiche, in cui i due si abbracciano come due liceali in un impeto di algida passione degna, piuttosto, dei preraffaelliti. Altro che malizia mista a innocenza, altro che ritegno misto a sfrontatezza.
Ma questa, purtroppo, è la storia come noi ce la vorremmo raccontare. Perché di recente è uscita una pubblicazione a firma, non a caso, di un filologo classico. Si chiama Giuliano Pisani, e il suo saggio ha un titolo apparentemente criptico: Le Veneri di Raffaello, tra Anacreonte e il Magnifico, il Sodoma e Tiziano. La Fornarina, nota Pisani, fino al 1772 non si chiamava affatto così. I curiosi che la ammiravano tra il Palazzo Buoncompagni e quello Barberini, dove ancora si trova, la definivano sì “bella da far dolcemente svenire”, ma quanto al suo nome non si hanno indicazioni. Cioè, una se ne ha, ed autorevole, ma ben poco commendevole. Scrive infatti il giovane Fabio Chigi, futuro papa, di aver visto il ritratto che Raffaello fece “della sua giovane meretricula”. Non ci vuole una laurea un lettere per tradurre l’appellativo. Nel romanesco dell’epoca si sarebbe detta “mignottella”, con quel tono tra il comprensivo ed il complice che si aveva per le cortigiane: istituzione della Roma papalina, ufficialmente reiette ma di fatto parte integrante della società, tanto da essere ammesse a contribuire, in forma ufficiale, all’abbellimento delle chiese.
Insomma: la ragazza praticava la nobile arte. Sì, ma perché chiamarla Fornarina? Perché identificarla con la povera Margherita Luti, cui magari si dovrebbe semmai restituire l’onore? Pisani è un filologo classico, e la spiegazione ce l’ha. Già Anacreonte (di qui il titolo) per non dire Erodoto e poi il Ruzante, usano il termine fornara per la prostituta, e la metafora del forno e dell’attività del fornaio per indicare l’atto sessuale, con tanto di precisazioni su cosa raffiguri il forno e cosa raffiguri la pala del fornaio. Una volta ancora aiuta il romanesco, laddove l’aver messo incinta una ragazza si dice ancor oggi “aver messo la pagnotta in forno”. Ma non è espressione degna del Ruzante, e infatti Pisani non la riporta.
Quanto a Margherita Luti, tutto sarebbe nato da una nota a mano inserita accanto al testo di un libro di viaggi a Roma, ai tempi del Gran Tour. Ne sarebbe scaturita una inaccurata ricerca di archivi e di anagrafi, ed ecco scovata la Luti, che ebbe il torto di morire pochi mesi dopo Raffaello, in un convento a Trastevere.
Conclusione del ragionamento: la meretricula al massimo sarebbe stata una modella presa dalla strada, ed il suo ritratto non vero ritratto era, ma raffigurazione idealizzata dell’Amore. Venere, insomma. Ma mica una Venere qualsiasi, bensì una Venere Pudica, vale a dire ispiratrice dell’Amore, però non di quello profano. Di quello sacro, piuttosto, anche e proprio perché seminuda. Era una costante iconologica dell’epoca: si pensi solo al Tiziano.
Tutto vero, ma in fondo piace ancora pensare a quello sguardo innocente e malandrino altro non siano che quelli di una popolana che seppe dare a un genio qualche anno di felicità. E la felicità, si sa, può arrivare a durare, intatta, anche cinquecento anni.