“Vorrei che le persone, sfogliando queste pagine, capissero che se ci sono riuscita io, persona normale, allora tutti possono sfidare e vincere la mafia”. A parlare con l'Agi è Federica Angeli, cronista di Repubblica. La giornalista stava facendo un reportage quando, il 23 maggio del 2013, Armando Spada — cugino di Carmine Spada, detto Romoletto – la sequestra insieme a due operatori. La privazione della libertà durerà ore. Dal suo racconto emergono la forza della donna che affronta quei momenti, ma anche tutta la solitudine successiva.
Tutto nasce da una tapparella che non si è abbassata: “A mano disarmata” (Baldini+Castoldi, pagg. 366, euro 17) è un libro intenso, la cronaca dei quasi cinque anni (o come dice lei, “millesettecento giorni”) in cui Federica Angeli, spesso in solitudine, ha vissuto sotto scorta solo ed unicamente per aver fatto il proprio dovere di cittadina e cronista. “L'idea del libro è stata della casa editrice, io avevo già lavorato con Elisabetta Sgarbi che si è appassionata alla mia storia e al mio percorso”, racconta Federica.
Solitudine, tanta, da quando dalla finestra di casa, tramite le “tapparelle”, vede un tentato duplice omicidio. È un regolamento di conti tra i Triassi e gli Spada, ricostruirà poi da brava cronista. Sente gli spari, guarda e registra quanto le sta accadendo attorno. E non chiude quelle tapparelle, lei da sola persino contro il consiglio del marito, quando Romoletto urla a tutte le persone “entrate, non c’è nulla da guardare”. Ma lei no, appunto. Non chiude le tapparelle da giornalista, da donna, da moglie e da madre di tre meravigliosi bambini.
Così, da giornalista e unica testimone decide di denunciare tutto e incamminandosi verso un ineluttabile destino: la scorta e la solitudine che ne consegue. “In questo Paese – racconta oggi Federica – chi fa il proprio dovere senza scendere a compromessi spesso rimane da solo. Ma io vorrei che tornasse la voglia di lottare, perché il malaffare gioca a sfinire psicologicamente a far passare la voglia di combatterlo. Invece no, bisogna resistere”. Perfino certa politica, tanto per cambiare, si gira dall’altra parte quando non attacca addirittura la giornalista additandola coma una “carrierista” che si sta costruendo un’immagini sulle minacce. Già, le minacce: quelle di morte, per lei e i suoi figli.
Sì, perché per chi non vuole vedere anche ad Ostia la mafia non esiste, anzi, come dice lei, non ha neanche un nome per poterla riconoscere. “Sono pericolosi, ma la mafia è un’altra cosa”, si sente ripetere come un litemotiv Federica, eppure le arrivavano i proiettili ed anche la benzina sotto la porta, non certo gesti da galantuomini.
Ma lei non si è arresa e ha impostato una vita familiare, come nel film “La vita è bella”, spiegando ai bambini come fosse tutto un gioco. Un gioco che le impedisce di accompagnarli a prendere un gelato o di rincorrerli per strada. Ma non di mostrare loro la lezione più grande: quella della libertà e della cittadinanza.