AGI - Un’onda di colori, di bellezza e di grandiosità, spazzò via le gocce di perplessità, dissenso e mugugni, cadute in ordine sparso al Teatro Augusteo la sera della prima del poema sinfonico in quattro quadri «Pini di Roma» di Ottorino Respighi (1879-1936). Era il 14 dicembre del 1924. Un secolo fa. La serata si risolse in un trionfo, pari a quello della legione romana in marcia descritta nelle ultime pagine di una partitura iridescente, che indicò nel compositore bolognese la punta di diamante della cosiddetta Generazione dell’Ottanta che, per il periodo di nascita alla fine dell’Ottocento, l’accomunava a Franco Alfano, Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero e Ildebrando Pizzetti. Su di loro si riponevano le speranze del sinfonismo italiano, ormai del tutto marginale rispetto alla produzione operistica che aveva conquistato il mondo ed era assolutamente preponderante. I «Pini di Roma» entrano nel catalogo respighiano a metà della trilogia che gli ha dato fama: le «Fontane» sono infatti del 1916, le «Feste» del 1928, ma sussistono ben pochi dubbi sulla valenza e sulla diffusione del poema affidato alla bacchetta di Bernardino Molinari e accolto dopo le prime note con qualche inquietante riserva.
La rinascita del sinfonismo italiano sul debordante successo del melodramma
Ma era bastato poco per virare verso il successo, che da allora ha sempre arriso al poema. Respighi va molto oltre una ridondante orchestra, la cesellatura del particolare, la cura maniacale degli impasti sonori tra i reparti strumentali che gli derivavano dalla straordinaria scuola di Nikolaj Rimskij-Korsakov il quale aveva forgiato il giovane Igor Stravinskij, autore a sua volta nel triennio 1910-1913 di un trittico russo in campo ballettistico da far tremare i polsi per la portata rivoluzionaria: «L’oiseau de feu», «Pétrouchka» e «Le sacre di printemps». Ben altri problemi stilistici aveva l’autore bolognese, circondato dalla solida e soverchiante sovrastruttura del melodramma che dettava legge in Italia e all’estero. Contemporaneo di Giacomo Puccini, con il compositore lucchese aveva in comune solo la capacità di utilizzare tinte inusitate e forzature del sistema tonale già andato in frantumi con Claude Debussy, lo stesso Stravinskij, e soprattutto Arnold Schoenberg padre della serialità dodecafonica. Ma era il linguaggio a essere totalmente diverso: Puccini aveva bisogno della parola e dell’azione scenica, Respighi si affidava alla trama eterea del poema sinfonico, detto anche musica a programma.
Il bolognese di scuola russa che ha disegnato in partitura il fascino della Caput Mundi
Roma, la città eterna che era stata della repubblica romana, poi degli imperatori, quindi del Papa-Re e infine dei Savoia e del giornalista di Predappio che vi aveva fatto marciare nel 1922 le sue camicie nere, gli aveva fornito motivi di ispirazione con i suoi scorci, le sue caratteristiche, i suoi colori, le sue atmosfere popolareggianti. Se «Fontane di Roma» era stata l’opera della maturità espressiva, «Pini di Roma» era la laurea. I pini, in realtà, sono tanto elemento ricorrente quanto scusa per descrivere in partitura alcune cartoline dell’Urbe. Respighi spalma le luci e i riflessi nell’arco di una giornata. Il poema si apre nel parco di Villa Borghese, al mattino, dove le voci garrule dei bambini contrappuntano i giochi degli anni spensierati. Il compositore cita subito esplicitamente la filastrocca «Madama Dorè» per immergere nell’atmosfera briosa e trascinante. Tutto è gioia di vivere, spensieratezza, corse e velocità dei giochi dell’infanzia. All’improvviso il quadro svapora, e assume ombre ed echi dei «Pini presso una catacomba». Un canto antico scivola tra gli alberi testimoni dell’antichissimo passato, una salmodia dapprima timida cresce e si afferma, il canto dolente dei primi cristiani diviene inno di fede conclamata e di fierezza, e quindi volge verso le tinte crepuscolari e notturne del Gianicolo. Se Giuseppe Verdi aveva fatto ricorso alle incudini come eclatante “object trouvé” in «Trovatore», Respighi va molto oltre e si affida a un disco, dove è riprodotto il canto dell’usignolo, e la bellezza della natura si unisce alla maestria dell’arte dei suoni.
La legione in marcia verso il trionfo e il favore di Toscanini
Poi, in un’alba brumosa e lattiginosa, s’ode un motivo che arriva da lontano e lascia immaginare quel che ancora non si vede. I «Pini della via Appia» fanno da cornice all’arrivo di una legione romana vittoriosa, in marcia verso l’Urbe per celebrare il trionfo. Il motivo, modale per suggestionare il salto nel passato, è cadenzato e cresce per sovrapposizione, come in un effetto-Doppler che si ferma però al punto culminante dell’avvicinamento, senza la distorsione dell’allontanamento. Roma accoglie il suo esercito vittorioso che ha portato sulla punta delle lance l’aquila, il diritto, la lingua e un sistema che ha segnato indelebilmente la civiltà occidentale. Tutta una serie di analogie tirate per la giacca in riferimento al Ventennio, nel dopoguerra fece guardare con ingiustificato sospetto Respighi, che non si era mai iscritto al Partito fascista, e quindi la sua opera. Che sono sopravvissuti sia alle ideologie sia alle più stupide forzature e distorsioni ideologiche. E pure alle illazioni che non sono riuscite a sporcare né a marginalizzare «Pini di Roma», uno dei veri capolavori orchestrali della musica italiana, certamente magniloquente (sei buccine, antico strumento militare romano per lanciare gli ordini, per il solo quarto quadro, spesso sostituite da trombe e flicorni) quanto certamente fedele a una vena ispirativa felice e sfaccettata fino all’esagerazione. Arturo Toscanini, non sospettabile di simpatie fasciste dopo la debolezza della candidatura fallita del 1919 e neppure prima dello “schiaffo di Bologna” del 1931 che lo spinse all’esilio negli Stati Uniti, diresse proprio «Pini di Roma» il 14 gennaio 1926 nel suo primo concerto alla guida della NBC Orchestra che era stata costituita, con un impressionante sforzo economico che solo gli americani potevano permettersi, proprio per lui, mettendogli a disposizione un’autentica macchina da guerra artistica impeccabile in ogni reparto. Nel 1945, quando per l’ultima volta dirigerà il complesso newyorkese, Toscanini vorrà in programma il capolavoro di Respighi.