I l quarto enigma di «Turandot» è nella partitura, ma Giacomo Puccini non l’ha mai scritto. Quale fosse lo rivelò il 26 aprile 1925 Arturo Toscanini, dirigendo l’ultima opera del compositore lucchese in prima assoluta al Teatro alla Scala di Milano. Nel momento in cui la schiava Liù, morta, veniva portata fuori dalla scena con un corteo funebre, Toscanini posò ieraticamente la bacchetta sul leggio e fermò l’orchestra e i cantanti esattamente dove si era interrotta la penna di Puccini. Un cancro alla gola l’aveva ucciso il 29 novembre 1924, a meno di un mese dal suo sessantaseiesimo compleanno, lasciando «Turandot» incompiuta. Neanche a Bruxelles i luminari erano riusciti a strapparlo al suo destino, che lui aveva aiutato non risparmiandosi mai il piacere dei sigari toscani. Tanti altri piaceri aveva colto dalla vita, e tantissimi ne aveva donati al mondo con la sua musica. L’editore Ricordi aveva commissionato a Franco Alfano il compito di completare la partitura avvalendosi degli appunti dell’autore, ma Toscanini aveva deciso altrimenti in quella serata scaligera che commemorava uno dei grandi della musica e l’ultimo grande operista della superba tradizione italiana che parlava al mondo con la lingua di Dante.
Una storia di famiglia sintetizzata nei nomi di battesimo
La strada di Puccini era segnata già nei primi quattro nomi che gli erano stati imposti al momento di registrare la sua nascita avvenuta a Lucca il 22 dicembre 1868: Giacomo come il capostipite, Antonio, Domenico e Michele partendo dal trisavolo per arrivare al padre lungo la linea di sangue: tutti musicisti, come nella famiglia Bach. Dalla genia al genio il passo era inevitabile. Il fatto che i genitori l’avessero chiamato anche Secondo e Maria è del tutto irrilevante, anche perché era il sesto di nove figli e primo maschio. Il suo talento emerse comunque prepotentemente in un quadro di solida formazione scolastica e culturale. A Milano quello che non apprendeva al conservatorio gli arrivava dal contatto diretto col teatro e dalla vitalità del melodramma. Già sapeva cosa fare e come voleva farlo: essere moderno, usando un linguaggio personale e innovativo, pur avendo assorbito tecniche, formule, forme e vene ispirative da Giuseppe Verdi, da Richard Wagner, dagli autori francesi. L’originalità come cifra espressiva, la cantabilità italiana e quei singolari impasti armonici che si staccavano dalla tradizione senza le asprezze che sarebbero esplose nel Novecento fino alla dissoluzione del sistema tonale. La musica di Puccini è sempre piaciuta, e infatti anche i contemporanei gli hanno rimproverato la “facilità” all’ascolto, mentre i pedanti accademici preferivano scambiare l’originalità con la mancanza di rispetto o ignoranza delle regole della composizione e del contrappunto. Lui era quello delle “quinte vuote”, i bicordi che mancavano della nota che determinava il modo maggiore o minore, e per questo vietatissime. Claude Debussy in Francia con la scala esatonica (sei toni invece dei sette che distanziano il do dal si con 5 toni e 2 semitoni della scala classica) faceva qualcosa di simile come principio ma è assolutamente impossibile confondere l’uno con l’altro. Eppure la sua prima partitura, «Le Villi», al concorso indetto da Sonzogno non ebbe neanche una menzione e l’esecuzione al Teatro Dal Verme del 31 maggio 1884 fu resa possibile solo grazie a una sottoscrizione promossa da amici.
Le grandi passioni di una vita inquieta
L’editore Ricordi acquistò i diritti e gli commissionò una nuova opera, investendo su quel toscano verace per farne il successore di Verdi. Nei cinque anni intercorsi dalla firma sul contratto alla prima di «Edgar» Puccini diede pubblico scandalo andando a vivere con Elvira Bonturi, già maritata e con una figlia, da cui avrebbe avuto l’erede Antonio. Sarà la sua unica moglie, sposata non appena potrà regolarizzare la sua unione (1904), ma non l’unica donna della sua esperienza sentimentalmente a dir poco irrequieta. Della vita amava molti piaceri, oltre le donne, come la buona cucina, la caccia, il fumo dei sigari e quello delle automobili che gli provocheranno pure un grave incidente. Contrariamente a moltissimi suoi colleghi, fu compositore e basta: niente lezioni, niente direzione, niente altro che la carta pentagrammata con tutto quanto questo comportava in termini di entrate economiche, almeno nei primi tempi. Archiviato «Edgar», nella sua convenzionalità impermeabile a ogni rimaneggiamento che ne migliorasse l’insieme, Puccini si concentrò sul progetto di «Manon Lescaut» non stando troppo a preoccuparsi che fosse lo stesso soggetto scelto da Jules Massenet, tra mille difficoltà di libretto e con sue continue ingerenze sui testi. La prima a Torino, il I febbraio 1893, riscosse un buon successo, ma limitato nel tempo, tanto da instillare nell’autore dubbi se continuare in questa carriera; poi, all’improvviso, quell’opera esplose in mezzo mondo e persino George Bernard Shaw la elogiò pubblicamente. Lui e il librettista Luigi Illica guardarono allora alle Scènes de la vie de bohème (1849-1851) di Henry Murger, e assieme a Giuseppe Giacosa crearono «Bohème»: come «Manon» aveva messo in ombra quella di Massenet, «Bohème» oscurò l’omonima opera di Ruggero Leoncavallo. La prima, il I febbraio 1896, ancora a Torino, fu affidata a un giovane Arturo Toscanini, entrato subito nelle grazie di Puccini che lo predilesse fra tutti i direttori d’orchestra. Il pubblico fu generoso, la critica no, o perché preconcetta o perché non riusciva proprio a sintonizzarsi con l’estetica pucciniana. «Bohème» diventerà la sua opera più eseguita, e nel presente gli portava in dote fama e agiatezza. Il 1900 fu l’anno della villa di Torre del Lago e della composizione di «Tosca»: un trionfo.
La voce del melodramma e del belcanto italiano
L’anno seguente, la scomparsa di Giuseppe Verdi lo faceva automaticamente incoronare come suo successore sul trono del melodramma e nel 1904 l’esotica «Madama Butterfly» lo legittimava con tutti i crismi, pur passando dall’eclatante fiasco della prima (assai probabilmente pilotato dalla claque) al travolgente e irreversibile successo di tre mesi dopo, su scala internazionale. Puccini viaggiava e cercava soggetti e idee, e tante cose scartava per insoddisfazione e perfezionismo, come ebbe a sperimentare continuamente Gabriele d’Annunzio. Per rivedere la sua firma su un’opera si dovrà attendere il 1907, quando sarà folgorato da un altro dramma di Belasco che nel 1910 diventerà «La fanciulla del West», in prima il 10 dicembre al Metropolitan di New York. Poi sarà la volta del «Trittico», ovvero i tre atti unici «Il tabarro», «Suor Angelica» e «Gianni Schicchi», sempre al Metropolitan nel 1918, inframmezzato da «La rondine» la cui composizione era iniziata nel 1914, con prima nel 1917 nella neutrale Monte Carlo perché l’Europa è devastata da una feroce guerra. Il vecchio mondo era stato sovvertito dal primo conflitto mondiale, che lui avversava, e dai problemi del dopoguerra.
L’ultimo progetto e l’eredità culturale e popolare
Dal 1920 Puccini si dedica al progetto di «Turandot». Il tumore alla gola, intanto, si manifesta e avanza. Quando si fa ricoverare nell’Institut médico-chirurgical di Bruxelles per sottoporsi a radioterapia e a una disperata operazione, aveva ultimato e orchestrato due atti, ma non completato il terzo. Proprio a quel punto di cesura della partitura, pubblicata formalmente conclusa, Toscanini alla Scala aveva interrotto l’esecuzione e poggiato la bacchetta. Rendeva così omaggio al genio che aveva unito la qualità della vena compositiva alla popolarità che non si è mai distaccata dalla sua musica, raffinata ed emozionalmente coinvolgente, ai giorni nostri fin troppo spesso banalizzata dalla pubblicità e da un pop di grana grossa.