AGI - In sei mesi di vita da nababbo, osannato come un mecenate e riverito come un principe, aveva fatto sparire in bagordi e prodigalità l’equivalente di oltre un milione di euro odierni. Soldi non suoi, ovviamente. Nell’Italia del 1924 scossa dal delitto Matteotti a catalizzare l’attenzione della cronaca non criminale era infatti la figura esotica del sedicente ultimo capo dei pellerossa d’America, Cervo Bianco, giunto in Europa a suo dire per perorare davanti alla Società delle Nazioni la causa dei nativi e finito nel Belpaese irregimentato in camicia nera a mettere a segno una clamorosa truffa sull’onda di una psicosi collettiva. Cervo Bianco è in realtà Edgard Laplante. La madre è sì indiana ma lui non è affatto un principe irochese; il padre, canadese, era un semplice muratore. Nella vita si è arrangiato con gli spettacoli, vendendo intrugli da imbonitore e raccogliendo fondi per la Croce Rossa, che si metteva regolarmente in tasca, e come comparsa per la nascente industria cinematografica. Fa l’indiano, e gli riesce pure bene.
L’incontro con una contessa che si innamora di lui
Il caso gli mette tra le mani la gallina dalle uova d’oro sotto forma della ricchissima contessa Antonia Khevenhüller la quale ha perso la testa per lui, che ha una moglie lasciata in America, Bertha, e un’altra in Inghilterra, Ethel Elizabeth, sposata nel giugno 1923 col falso nome di Tewanna Ray. Laplante conosce a Nizza le nobili austriache Antonia e Melania Khevenhüller, figlia e madre: loro erano in vacanza e l’americano impegnato in uno spettacolo in cui indossa un vestito da capo indiano al cui interno ha conservato l’etichetta dei Magazzini Lafayette che glel’hanno confezionato e che è giunto ai giorni nostri, esposto al Museo di antropologia culturale “Cesare Lombroso”. Da perfetto imbonitore convince le due aristocratiche di essere quello che non è, millanta ricchezze inaudite purtroppo momentaneamente bloccate in Gran Bretagna, e così le segue a giugno in Italia dove le due donne hanno le loro proprietà. Gli mettono a disposizione non solo la loro villa di Fiumicello, nei pressi di Trieste, ma anche il loro danaro, che lui spende e spande con munifica prodigalità: questa sì davvero principesca.
Una stagione da nababbo dilapidando il patrimonio dell’amante
Passa l’estate sulla Riviera Ligure, a settembre si sposta in Toscana, in sontuosi pranzi e cene mangia con raffinatezza e beve come un cow boy, e il 2 all’Hotel Danieli festeggia il trentaseiesimo compleanno regalando soldi come fossero coriandoli. Piace non solo alla contessa ma alla gente. Finisce sui giornali, tutti ne parlano. Diventa subito un personaggio, idolatrato dalle folle per l’abitudine di lanciare banconote e monete dal balcone o dall’auto di lusso, e pure dal fascismo che vede nell’esaltazione del pseudo filantropo l’occasione per rifarsi una verginità che non ha dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti. Ad Ancona è un tripudio di folla, a Bari altrettanto, ovunque i gerarchi fanno a gara per farsi fotografare assieme al principe pellerossa al quale viene rilasciata anche la tessera di iscrizione al Partito nazionale fascista. Tutti cadono nella seducente rete tessuta dall’irresistibile avventuriero, incantati dalle sue parole di filantropo e dalla sua generosità: gli italiani vogliono sognare, le Mille lire al mese della canzone (1938) sono lontane non solo nel tempo, ma Laplante è capace di spenderle in una sera o di regalarle.
L’incontro sfumato all’ultimo momento con Mussolini e quello negato da Papa Pio XI
A Firenze Richard Ginori in occasione di una visita ai suoi laboratori ha fatto realizzare un busto in porcellana che riproduce le fattezze di Cervo Bianco in dimensioni reali; a Fiume che raggiungerà da Trieste in idrovolante per rievocare l’impresa di Gabriele d’Annunzio e il Volo su Vienna, lo proclamano “fascista honoris causa”. Era riuscito ad arrivare a Benito Mussolini a Roma, ma un imprevisto dovuto a un impegno istituzionale del capo del Governo aveva fatto saltare quell’incontro; Papa Pio XI, assai più prudente, non l’aveva ricevuto e si era limitato a fargli pervenire una sua foto autografata. Della tappa a Cagliari, un trionfo, scrive Emilio Lussu. Il 28 ottobre, in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma, pronuncia un discorso che infiamma le camicie nere. E intanto spende, regala, promette, rassicura, blandisce, non si cura del danaro che vola via perché tanto non è suo.
La denuncia, l’arresto e la doppia condanna al carcere
Non può durare, e non dura. Antonia non è più disposta a sopportare le sue scappatelle, che non devono essere né poche né di alto livello, se è vero come è vero che ha contratto la sifilide. Giorgio Kevenhüller, fratello di Antonia, appena tornato da un safari in Africa si accorge del mostruoso buco nei conti della famiglia di quello che in teoria dovrebbe essere un prestito. A dicembre del 1924 Laplante, cacciato dalla villa di Fiumicello, è a Torino e dopo un breve soggiorno in hotel viene ricoverato in sanatorio per malattia venerea. Qui gli viene notificato un foglio di via e lui il 13 se ne va nella vicina Svizzera, a Bellinzona, con visto turistico di 5 giorni, poi a Lugano Ma ormai tutto gli va a rotoli. Persino Antonia ha aperto gli occhi sul suo conto e sulle millanterie sulla Corte reale e sul Principe di Galles che dovrebbe sbloccare il suo stratosferico patrimonio: a Londra non ne sanno nulla. Viene denunciato dall’ex amante e dal fratello per truffa e a giugno 1926 il tribunale di Lugano lo condanna a un anno di reclusione: ai giudici dice che Cervo Bianco è solo il nome di un suo personaggio che lui ha continuato a interpretare sul palcoscenico della vita, da artista. Una recita, insomma.
Quando viene scarcerato, bollato di essere un bugiardo cronico con personalità istrionica, viene preso in consegna dalla giustizia italiana. Cala il sipario sui tempi ruggenti degli «omaggi d’autorità, scorte d’onore, suono di campane, banchetti e inviti» e delle «generose oblazioni e la finta benedizione papale», come scrive La Stampa. A ottobre finisce alla sbarra a Torino. I giudici gli infliggono cinque anni di reclusione, ma ne sconterà meno di tre. In cella avrà come compagno di detenzione l’antifascista Massimo Mila che ne raccoglierà le confidenze di cui parlerà molto più in là a Ernesto Ferrero, il quale ne ricaverà il libro «L’anno dell’indiano» (Einaudi, 2001). Laplante morirà a Phoenix, negli Stati Uniti, nel 1944. Gli è sopravvissuta la favola di Cervo Bianco e quella della grande illusione collettiva. Come hanno scritto con acume Oreste del Buono e Giorgio Boatti, gli italiani del 1924 “inventarono” Cervo Bianco perché «avevano bisogno di qualcuno su cui proiettare il loro confuso desiderio di fasto e d’avventura, un mago che li guarisse dalla mediocrità del loro presente, qualcuno da applaudire per meriti che nessuno conosceva esattamente, e che consistevano principalmente in una ricchezza favolosa».