AGI - Alle ore 14 del 3 ottobre 1866 con tutti i crismi del diritto internazionale a Vienna veniva firmata la pace tra Impero asburgico e Regno d’Italia, chiudendo così la terza guerra d’indipendenza che portava nei confini italiani il Veneto. Era la prima guerra dello stato unitario che non aveva però ancora completato il percorso risorgimentale. Quello che sembrava un successo sulla scena europea era in realtà frutto di una duplice sconfitta militare su terra a Custoza e in mare a Lissa, e di uno smacco diplomatico che avrebbero a lungo marchiato il prestigio della nuova nazione.
Francesco Giuseppe cede i territori a Napoleone III per girarli a Vittorio Emanuele II
Quando i plenipotenziari generale Federico Luigi Menabrea e conte Emmanuel Felix de Wimpffen per l’Impero francese sottoscrissero il trattato in 24 articoli, un addizionale e tre protocolli, l’Italia accettava ufficialmente da Napoleone III i territori che gli erano stati ceduti da Francesco Giuseppe affinché li girasse a Vittorio Emanuele II, come prestabilito nell’intesa tra Vienna e Parigi. Era stata precisa cura della cancelleria asburgica prevedere che comunque nei territori fosse indetto un referendum nel quale la popolazione potesse optare per la cittadinanza imperiale, e che Firenze si addossasse il debito pubblico delle Venezie, tutt’altro che leggero. Il Re d’Italia ratificherà il trattato il 6 ottobre: era il, risultato quello che contava, anche se il modo in cui aveva ampliato il suo regno non era edificante, anche per lui che era e si sentiva soprattutto un soldato. Quanto ai militari italiani che militavano sotto le bandiere con l’aquila nera e avevano combattuto per Francesco Giuseppe, erano liberi di optare per l’Italia conservando nell’esercito dei Savoia gradi e onori, oppure rimanere fedeli al giuramento agli Asburgo.
Le rivalità e le velleità dei militari provocano l’umiliazione diplomatica
La vittoria nella sconfitta era frutto dello strepitoso successo dell’alleata Prussia sugli austriaci a Sadowa, il 3 luglio, che aveva deciso in un colpo solo le sorti della guerra. L’armistizio con Berlino era stato firmato il 26 luglio a Nikolsburg e diventerà il 23 agosto pace di Praga: Otto von Bismarck con fine disegno politico edra riuscito a imporsi su Guglielmo I Hohenzollern che accarezzava invece l’idea di entrare trionfalmente a Vienna alla testa delle sue truppe. Il cancelliere si era fatto garante dell’integrità dell’Austria a eccezione delle Venezie che rientravano nel trattato di alleanza col Regno d’Italia, all’articolo 4. Il governo italiano non era stato minimamente consultato o informato dei passi prussiani per la fine della guerra, e al tavolo della pace non poteva portare nessun pegno militare perché la condotta sul campo di battaglia era stata fallimentare. Firenze doveva trattare con Vienna, ma non poteva chiedere niente di più di quello che i prussiani avevano contemplato nel patto di alleanza. Per di più il giornale francese Le Moniteur aveva fatto sapere a tutt’Europa che il Veneto sarebbe stato ceduto a Napoleone III che a sua volta l’avrebbe girato all’Italia, poiché Bismarck non poteva né voleva chiedere all’Austria la cessione diretta e neppure che il nuovo confine ricalcasse la frontiera naturale di Trento e Bolzano come volevano gli italiani. I patti diplomatici non erano questi e il cancelliere non intendeva flettere da questa linea, né proseguendo la guerra né appoggiando diplomaticamente l’alleata.
Il successo di Garibaldi vanificato dall’'Obbedisco' all’ordine del Re
Giuseppe Garibaldi che marciava verso nord con le sue imbattute camicie rosse fu fermato da un ordine del Re al quale rispose col famoso telegramma dell’«Obbedisco», e così il capo di Stato maggiore Alfonso La Marmora, artefice del disastro di Custoza col velleitario generale Enrico Cialdini che adesso si agitava perché avrebbe voluto addirittura conquistare il Trentino dopo aver fornito ben scarsa prova di stratega. Non c’era infatti nessuno spazio per una vittoria riparatrice. La conduzione della guerra in autonomia non era proponibile, perché l’Austria non aspettava altro che poter rivolgere tutto il suo esercito a sud non dovendo dividere le forze sotto la minaccia prussiana a nord, e regolare così i conti con l’Italia già due volte battuta. Se Custoza tutto sommato era stato un successo ai punti, a Lissa la vittoria era stata assoluta ed eclatante, considerate le forze in campo e il gap tra la flotta di Wilhelm von Tegetthof e quella di Carlo Pellion di Persano che vantava moderne corazzate ma era dilaniata dalle rivalità tra ammiragli e dalla mancanza di caratura dei comandanti. Il nerbo della Kriegsmarine imperiale era invece formato da esperti veneziani, dalmati e istriani che il 20 luglio nelle acque dell’Adriatico esultarono inneggiando a San Marco e alla lunga e prestigiosa tradizione marinara della Serenissima. Avevano colato a picco due corazzate e l’Italia aveva perso 640 uomini, mentre gli austriaci avevano avuto appena 38 morti e 138 feriti.
Le pretese di Vienna e le clausole sui plebisciti
Per la firma dell’armistizio Vienna aveva preteso l’evacuazione del Tirolo da tutte le truppe italiane, regolari e irregolari, riferendosi appunto ai garibaldini che avevano colto l’unica vittoria di quella guerra a Bezzecca, il 21 luglio, proseguendo in territorio nemico. All’Italia non era stato concesso neppure di poter trattare col punto di forza dell’uti possidetis e il presidente del Consiglio Bettino Ricasoli aveva pertanto disposto il ritiro, come intimato dall’Arciduca Alberto, entro le 4 del mattino dell’11 agosto. Alle trattative italo-austriache che avrebbero portato i confini del 1815 tra Lombardo-Veneto e impero, Napoleone III aveva inviato in qualità di commissario il suo aiutante di campo, il generale Edmond Le Boeuf, e ogni tentativo italiano di evitare l’umiliazione internazionale fu inutile. L’escamotage del decreto reale proprio del 3 ottobre di indire i plebisciti per il 21 e 22 non riuscirà a far rimuovere il veto francese all’ingresso delle truppe italiane a Venezia e Verona prima dell’esito del voto. Le Boeuf, con buon senso, cederà comunque il Veneto al Regno d’Italia il 19 ottobre, non in una sede prestigiosa ma nell’anonimato di una camera dell’Hotel Europa di Venezia. Due giorni dopo il passaggio sotto la corona dei Savoia sarà ufficialmente sancito da 641.758 sì (99,99%), 69 no e 273 astenuti. Va sottolineato che nel trattato di pace Francesco Giuseppe si limitava a dare magnanimamente il suo «assenso alla riunificazione del regno Lombardo-Veneto con il regno d’Italia», e l’ingresso trionfale a Venezia di Vittorio Emanuele II e l’onda di retorica non riusciranno a stemperare la realtà dei fatti e neppure a superare l’imbarazzante anomalia storica, politica, militare e diplomatica rappresentata dalla III guerra d’indipendenza.