AGI - Divenne Capitale d’Italia per una casualità della Storia in uno dei momenti più drammatici dell’Italia contemporanea. Brindisi, punto terminale dell’antica via Appia, rappresentò infatti la tappa finale della fuga del Re Vittorio Emanuele III, del Capo del governo Badoglio e dei ministri militari che dalla via Tiburtina Valeria il 9 settembre 1943 si recarono precipitosamente in auto da Roma a Pescara e poi via mare verso l’Adriatico meridionale in cerca di un approdo sicuro per rifondare uno Stato in disgregazione. L’annuncio dell’armistizio, che in realtà era una resa incondizionata, aveva innescato una tragicomica reazione a catena che aveva messo a nudo l’inadeguatezza di una classe dirigente. Dietro l’imperativo della continuità del regno si stagliava l’inquietante utilitaristica salvezza personale.
Il Consiglio della Corona all’aeroporto di Pescara nel pomeriggio del 9 aveva portato alla decisione di trasferire i vertici di una nazione già in balia della vendetta tedesca sulle corvette “Baionetta” e “Scimitarra”, sotto la scorta dell’incrociatore “Scipione l’africano”: imbarco parziale e alla chetichella nel porto dannunziano in serata e ressa invereconda sul molo di Ortona nella notte. Dove andare lo decidono le informative sollecitate via radio a Manfredonia, Barletta, Bari e Monopoli sulla presenza di truppe tedesche, e soprattutto un ricognitore della Luftwaffe, uno Junkers Ju 88, che per una ventina di minuti volteggia al largo di Brindisi sopra alla “Baionetta” e all’incrociatore facendo allertare le artiglierie di bordo. Il marconista contatta allora Brindisi per trovare ricovero dal prevedibile attacco di bombardieri tedeschi e ottiene conferma che il porto e la città sono sotto il pieno controllo della Regia Marina.
Sul Castello Svevo sventola il tricolore. Le vedette verso le 14 avvistano le due navi da guerra provenienti da Ortona, e il comandante della piazza, l’ammiraglio Luigi Rubartelli, va loro incontro con un motoscafo. Non può neppure immaginare che a bordo della corvetta non c’è solo il comandante in capo Raffale De Courten, amico dei tempi dell’Accademia Navale, ma anche Vittorio Emanuele, la regina Elena, il principe Umberto, Badoglio, il capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio, e i capi di stato maggiore del Regio Esercito e della Regia Aeronautica generali Mario Roatta e Renato Sandalli. Rubartelli rassicura il Re sulla precisa domanda se Brindisi può essere difesa da un attacco tedesco e allora tutti scendono a terra.
Inizia così il trasferimento effettivo della capitale da Roma a Brindisi di un Regno d’Italia ridimensionato a Regno del sud. Il Governo e i ministri militari si installano al Castello Svevo, la famiglia Savoia al primo piano di Palazzo dell’Ammiragliato nelle stanze occupate da Rubartelli, dalla moglie Irma e dal figlio Franco che traslocano al piano terra. La prima comunicazione via radio è con Algeri, dove si trova il comandante in capo dell’esercito alleato nel Mediterraneo, generale Dwight Eisenhower, il quale avverte Badoglio che manderà subito a Brindisi una commissione interalleata. Questi risponderà l’indomani: «Già da ieri sono stati comunicati ordini a tutte le forze armate di agire vigorosamente contro le aggressioni tedesche. (…) È adesso assolutamente necessario, signor generale, che coordiniamo le nostre azioni, dato che combattiamo lo stesso avversario». Il generale Ambrosio emana una direttiva ai capi di stato maggiore delle tre armi: «I tedeschi hanno apertamente iniziato le ostilità contro di noi; di conseguenza sono da considerarsi nemici e le Forze Armate debbono decisamente combatterli. (…) Occorre procedere in cooperazione con le forze angloamericane all’azione offensiva per la liberazione di tutto il territorio nazionale». Gli ordini emanati da Brindisi sono espressione formale del tentativo di ripristinare un’autorità istituzionale che si è slabbrata: la continuità della catena di comando si è spezzata, le forze armate si sono sbandate e liquefatte.
L’11 settembre è anche il giorno del primo Consiglio della Corona a Brindisi, capitale provvisoria di un regno che in poche ore è diventato nominale. Partecipano Vittorio Emanuele, Badoglio, il principe Umberto, l’ammiraglio De Courten, il generale Ambrosio, il ministro della Real Casa, duca Pietro Acquarone, il generale Paolo Puntoni. Il Re fa elaborare un proclama rivolto agli italiani in cui spiega che ha lasciato Roma «per il supremo bene della Patria che è sempre stato il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita», e di aver raggiunto Brindisi, sul «sacro e libero suolo nazionale», per salvaguardare l’integrità della nazione. Un altro proclama è di Badoglio, che lo affida a Radio Bari, ma il segnale è così debole che ben pochi lo ascoltano. I negozi di Brindisi devono intanto provvedere alle esigenze immediate della famiglia Savoia, soprattutto per quanto concerne la biancheria di cui sono sprovvisti. Il sovrano ci mette poco a riprendere le sue ferree abitudini, con la sveglia alle 5.30, il giro di ispezioni e la lettura dei giornali e della posta: solo che c’è ben poco da ispezionare e i giornali e la posta non arrivano. La regina Elena fa i consueti solitari con le carte, lavora a maglia e conversa in salotto con Irma Rubartelli. Anche Badoglio, che ha fatto requisire una villetta dove si è trasferito col segretario Nino Valenzano, che è suo nipote, è tornato subito alle sue pignolesche abitudini. Lo Stato maggiore è sul mercantile “Abbazia” che, con il “Campidoglio”, alloggia ufficiali e funzionari, mentre le riunioni del governo sono ospitate nella casermetta dei sommergibilisti.
Non appena arrivata a Brindisi, il 13 settembre, la delegazione alleata fa sloggiare tutti i membri del governo dal Grande Albergo Internazionale e fissa come propria sede la casa del commerciante Francesco Sion, in via Colonne 10.
Il Regno del sud con capitale Brindisi ha una giurisdizione limitata alle province di Brindisi e Bari. Le comunicazioni con la Sardegna evacuata dai tedeschi e con la Sicilia, controllata dagli angloamericani, sono difficoltose; il governo stesso è parziale, poiché nessun ministro civile è stato avvisato dell’allontanamento da Roma e del trasferimento a Pescara. L’Esercito non c’è più (delle 82 divisioni esistenti all’8 settembre, ne rimangano solo tre nell’Italia meridionale, quattro in Sardegna, una nel Dodecaneso e una a Cefalonia) e i tedeschi hanno deportato circa 800.000 militari nei lager, l’Aeronautica è debellata e la Marina si è dovuta consegnare all’ex nemico in ossequio alle clausole dell’armistizio. Gli Alleati non sanno neppure se e come riconoscere quel simulacro di Stato. Il 14 settembre Vittorio Emanuele riceve il generale Frank Mason-MacFarlane accompagnato dal generale Maxwell Taylor e si scandalizza perché indossano i pantaloncini corti: uno sgarbo istituzionale che lo indispettisce. L’inglese Harold Macmillan, che rappresenta Winston Churchill, rimane impressionato negativamente dal Savoia e si irrita non poco quando da Radio Bari si fa annunciare con la consueta formula di Re d’Italia, Imperatore d’Etiopia e Re d’Albania. È sin troppo borghese, poi, quando gli domandano di cosa abbia bisogno, e lui chiede uova fresche per la regina.
Badoglio si imbarcherà a Brindisi per raggiungere il 29 settembre Malta dove sulla corazzata “Nelson” firma il cosiddetto armistizio lungo. Nonostante le pressioni di Eisenhower solo il 13 ottobre da Brindisi parte la nota diplomatica all’ambasciatore a Madrid, Giacomo Paulucci de’ Calboli, per l’avventurosa formale dichiarazione di guerra alla Germania. Il Regno del sud non ha però il ruolo di alleato, bensì quello ridotto di cobelligerante. E non essendo stato riconosciuto in base al diritto internazionale, per alcuni non avrebbe avuto neppure la capacità giuridica di dichiarare guerra al Reich: lo confermerebbe, peraltro, il fatto che dopo la sconfitta della Germania di Hitler con l’Italia non ci sarà alcun trattato di pace.
Intanto Badoglio, tirato da un lato da Roosevelt che desidera la costituzione di un governo antifascista e democratico, dall’altro da Churchill e Stalin che per motivi opposti non vogliono un esecutivo lacerato dalle divisioni e dalle rivalità tra i rinati partiti, si trova a dover gestire una situazione in cui nel pomeriggio del 16 ottobre il Comitato di Liberazione Nazionale diffonde un documento in cui dichiara che la guerra di liberazione costituisce la necessità suprema della riscossa nazionale, che richiede un governo «straordinario» espressione politica delle forze antifasciste «che hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e fino dal settembre del 1939 si sono schierate contro la guerra nazista», e che adesso conducono «la guerra di liberazione a fianco delle Nazioni Unite» in attesa di «convocare il popolo al cessare delle ostilità per decidere sulla forma istituzionale dello Stato». Ne deriva la creazione di un governo tecnico, che Badoglio, con la pressoché totale assenza di ministri militari vara a Brindisi il 16 novembre 1943. Il Ministero degli Esteri si insedia in una stanza di uno stabile di Piazza Santa Teresa, e da qui deve risolvere il problema del riconoscimento internazionale. Il Capo di stato maggiore Ambrosio e il capo di Stato maggiore dell’esercito, Roatta, vengono dimissionati. Il cosiddetto “governo dei sottosegretari” esercita la sua sovranità diretta solo sulle quattro province pugliesi di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto, e solo progressivamente l’Allied Military Governement (AMG) passerà al governo di Brindisi le competenze sui territori liberati.
La moneta nazionale, la lira, viene intanto sostituita dall’AM-lira (Allied Military Currency) che gli americani stampano senza alcun addentellato con le leggi dell’economia creando una tempesta inflazionistica totalmente fuori controllo. Il mercato nero, che ha invece il polso della situazione, all’istante dimezza il potere d’acquisto dell’AM-lira che ufficialmente vale un centesimo di dollaro. Il 26 settembre a San Pietro Vernotico, in provincia di Brindisi, era stato costituito il 1° Raggruppamento motorizzato italiano. Contava appena 5.500 uomini agli ordini del generale Vincenzo Cesare Dapino, e per essere il segnale di rinascita dell’esercito italiano non andava oltre una brigata, ottenuta fondendo unità delle divisioni Legnano, Mantova, Piceno e del LI Corpo d’armata.
Il governo da Brindisi promulga leggi, in particolare per gestire un’economia fuori controllo, e stampa la Gazzetta ufficiale nella Tipografia Ragione. I prefetti devo dare applicazione a disposizioni di aumento dei prezzi di sigarette, generi di monopolio e di prima necessità come pane, latte, zucchero, carne. Aumentano pure le indennità per ministri, sottosegretari, generali e capi di stato maggiore, con carattere d’urgenza, come riporta la stessa Gazzetta. Il Re riappare in pubblico il 10 dicembre, assieme al principe Umberto, in un hangar dell’aeroporto militare per la ricorrenza della Madonna di Loreto, e assiste alla messa celebrata dall’arcivescovo di Brindisi monsignor Francesco De Filippis. Un regio decreto pone fine con colpevole ritardo a una delle pagine più vergognose della storia d’Italia: la Gazzetta Ufficiale pubblica il 9 febbraio il Provvedimento n. 25 del 20 gennaio 1944, “Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri di razza ebraica o considerati di razza ebraica”. Due giorni dopo Brindisi cessa di essere capitale del Regno del sud. Il governo si trasferisce a Salerno, a eccezione del Ministero della guerra che resta dov’è ma solo per motivi di logistica.
A Brindisi si compie anche un piccolo ma significativo gesto, con l’apertura, per adesso ancora timida ma significativa, alla libertà di stampa soppressa dal regime fascista. Il 27 gennaio, Badoglio ha avuto dagli Alleati il riconoscimento all’Italia dello status di territorio liberato, ma non il riconoscimento formale del governo. Arriverà a sorpresa dall’URSS il 14 marzo 1944, con un cinico calcolo politico di Stalin per mettere in difficoltà gli angloamericani e spianare l’ingresso del Partito comunista nell’esecutivo accantonando la questione istituzionale. Ma Brindisi è già uscita dal palcoscenico principale della Storia e dal suo ruolo di effimera capitale di un’Italia che stava faticosamente rinascendo dalle macerie morali e materiali.