AGI - C'è una storia, che è quella dell'antimafia peggiore, che non è nemmeno di maniera ma è fatta di ricatti e di danni irreversibili, che è talmente sconvolgente che se fosse fiction non sarebbe verosimile. E invece non è solo verosimile, ma reale e, dato che così spesso la realtà fa meglio - in questo caso peggio - della fantasia, un giornalista ha deciso di usare la forma ibrida della docufiction letteraria per ricostruire una vicenda che, altrimenti, sarebbe difficile da metabolizzare. La storia è quella ormai cristallizzata dalle sentenze passate in giudicato della giudice Silvana Saguto, presidente di una sezione fondamentale del tribunale di Palermo come le Misure di prevenzione, con un passato da icona dell’antimafia siciliana. In realtà è assetata di denaro e di potere, circondata da uno stuolo di fedelissimi pronti a tutto pur di mettere le mani sui beni dei mafiosi. Un tesoro che vale decine di miliardi di euro. Ci sono i finti buoni e ci sono i cattivi veri. Ma ci sono anche i buoni veri, incarnati da Gianfranco, il figlio di un imprenditore di successo che una mattina di giugno del 2010 viene accusato di essere un mafioso, amico di boss del calibro di Bernardo Provenzano, Antonino Madonia e Salvatore Lo Piccolo, i capi di Cosa nostra siciliana.
Sono le due “voci” de “La notte dell’antimafia. Una storia italiana di potere, corruzione e giustizia negata”, (Compagnia editoriale Aliberti, Pagg. 270, 18,90 euro) un romanzo in uscita il 29 febbraio che il giornalista di Repubblica Lucio Luca ha tratto da una incredibile storia vera e che intreccia proprio la mafia all’antimafia in una terra, la Sicilia, nella quale spesso – molto più di quanto si pensi - i confini tra bene e male sono labili e indecifrabili.
Il padre di Gianfranco, proprietario di un resort di lusso, è anche titolare di un’azienda che produce un vino pluripremiato nel mondo. Improvvisamente si ritrova invischiato in una torbida storia di riciclaggio per conto dei boss e le sue foto in manette fanno il giro del mondo. I giornali titolano: “Le mani di Cosa nostra sul vino siciliano” e lui finisce prima in carcere per 23 giorni e poi per quasi due anni agli arresti domiciliari. Il suo dramma è ripercorso passo dopo passo dal figlio, anche lui molto conosciuto a Palermo ma da quel giorno scansato come la peste da finti amici e colleghi senza scrupoli.
Il racconto di Gianfranco si intreccia con quello sui metodi usati nella sezione Misure di prevenzione del tribunale dalla presidentessa e dal suo “cerchio magico”. Avvocati, commercialisti, contabili scelti dalla zarina con un unico obiettivo: svuotare le aziende sequestrate alla mafia o a chi è semplicemente sospettato di farne parte, farle fallire e incassare per anni ricchi stipendi. Anche dopo l’assoluzione degli imputati nei processi penali. È il cosiddetto “doppio binario”, previsto dalla legge italiana, che ritorna spesso nel romanzo. Saranno le intercettazioni della Guardia di Finanza, diversi anni dopo, a svelare il marcio di un’antimafia che scivola rapidamente verso l’illegalità in nome, appunto, di soldi e potere.
Il padre di Gianfranco, dunque, è uno dei tanti imprenditori siciliani che con la criminalità non c’entrano nulla e che dopo un calvario di inchieste e processi si ritrovano tra le mani le macerie di una gestione dissennata, quella delle loro imprese appunto, letteralmente spolpate da amministratori giudiziari corrotti o nella miglior ipotesi incapaci.
Sullo sfondo appaiono giudici, prefetti, avvocati, professori universitari: un pezzo di Stato che trasforma i patrimoni sotto sequestro in uffici di collocamento per amici e parenti. Fra trolley pieni di soldi e carte di credito usate senza limiti, ristoranti di lusso e spese da migliaia di euro non pagate nei supermarket appena sottratti a presunti prestanome di boss. Un vaso di Pandora denunciato solo da qualche giornalista scomodo - e quindi da punire - venuto fuori a margine di una piccola inchiesta su una concessionaria di auto. E che, grazie alle intercettazioni, è diventata una valanga facendo emergere il più grande scandalo dell’antimafia siciliana. Capitolo dopo capitolo si alternano le voci di vittime e carnefici, di una mafia che mafia non è e di un’antimafia che quei valori tradisce “in ogni singolo momento”, come ha scritto nelle motivazioni di un processo un giudice di Caltanissetta. Sì, perché alla fine la storia si ribalta, i cattivi vengono assolti e i buoni condannati. Anche se la Cassazione, confermando la sostanza delle sentenze di primo e secondo grado, ha deciso di rimandare tutto indietro per un ricalcolo al ribasso delle pene cambiando la natura di alcuni reati. Senza, però, che siano venute meno corruzione e concussione, le accuse più gravi e infamanti. La sensazione, però, è che in questa storia non ci siano vincitori: a perdere è soprattutto una terra dimenticata che non riesce mai a imparare dai suoi errori.