AGI - Sulla questione istituzionale che investiva Vittorio Emanuele III e la dinastia dei Savoia nel 1944 si giocava una partita doppia, su scala nazionale e internazionale. All’indomani dell’autorizzazione da parte degli Alleati di trasferire il Governo da Brindisi a Salerno il 27 gennaio, con il riconoscimento all’Italia di “territorio liberato”, il Congresso dei partiti antifascisti riunito al Teatro Piccini di Bari il 28 ribadiva chiaramente il concetto dell’abdicazione del re e della convocazione di un’assemblea costituente. Il Congresso, espressione delle anime del Comitato di liberazione, al di là del suo ruolo era stato convocato in forma semiufficiale per non urtare la suscettibilità degli Alleati, restii a concedere a tale organismo il crisma della rappresentatività del popolo italiano, caratteristica che peraltro non riconobbero mai. Quanto alla monarchia, gli inglesi erano su posizioni diverse e opposte a quelle americane, non andando oltre un ipotetico possibilismo senza però intaccare più di tanto la continuità dinastica; la ferrea tradizione repubblicana statunitense era invece preminente sulla visione delle cose italiane. D’altronde il capo della missione interalleata di controllo, il generale britannico Noel Mason-MacFarlane, a Brindisi si era presentato davanti a Vittorio Emanuele e alla regina Elena in pantaloncini corti e con l’atteggiamento di chi gli ordini li dà, insensibile allo sdegno e al moto di fastidio della coppia reale: come li aveva fatti sloggiare allora dalla residenza che occupavano, non aveva nessuna remora sul fatto che potessero essere sloggiati dal trono d’Italia.
Era stato il giurista Enrico De Nicola a cercare di far comprendere al Savoia l’opportunità di fare un passo indietro prima che la storia decidesse per lui. Lo aveva incontrato il 20 febbraio a Ravello, e lo aveva esortato a nominare Umberto luogotenente generale del Regno, con esecutività dal momento del rientro a Roma, per una transizione morbida che preservasse la continuità dinastica. Era un compromesso per salvare quello che forse non si poteva più salvare. Al principe di Piemonte il padre non aveva mai dato né fiducia né credito, tenendolo sempre al di fuori delle scelte e non informandolo neppure delle trattative di armistizio: la sera del 9 settembre 1943, infatti, non sapeva neppure che era stato convocato il Consiglio della Corona al Quirinale per decidere il da farsi dopo l’annuncio della resa incondizionata da parte del generale Dwight Eisenhower da Radio Algeri. La raffinata soluzione escogitata da De Nicola era stata accettata di malavoglia da Vittorio Emanuele, con un “sì” che era stato riferito il giorno dopo a Mason-MacFarlane. Ma è Winston Churchill a comprendere subito che quei movimenti e quelle trattative vanno ben al di là dei regolamenti di conti tra italiani, investendo invece il quadro politico-militare della condotta della guerra e dei suoi equilibri alla fine delle ostilità. Il 22 febbraio a Londra pronuncia un discorso in un’affollata Camera dei comuni che verrà subito chiamato “il discorso della caffettiera”.
Con una delle sue fulminanti creazioni linguistiche per immagini esprime una recisa contrarietà alla proposta del Congresso di Bari di un’assemblea costituente, in appoggio a Badoglio e al suo governo e quindi alla monarchia. «Se si deve tenere in mano una caffettiera bollente – sostiene nella metafora – è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne un altro egualmente comodo e pratico, e comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio». Churchill non si erge a difesa di Vittorio Emanuele III, perché è un lucido politico, ma dell’istituto monarchico, da lui visto in quel frangente storico come barriera, l’unica al momento, al rischio comunista. E manifesta esplicitamente anche il disconoscimento di autorità e autorevolezza dei rinati partiti politici antifascisti riuniti a Bari.
Al “discorso della caffettiera” Benedetto Croce e Carlo Sforza rispondono con una lettera formale di protesta che il premier britannico fa cadere nel vuoto. I partiti antifascisti vorrebbero di più per legittimarsi agli occhi degli Alleati e lanciano allora l’idea di una grande manifestazione di popolo, con uno sciopero generale che dovrebbe comprovare l’appoggio di cui godono. Gli angloamericani sono fortemente contrariati e durante una riunione in prefettura a Napoli il governatore statunitense Charles Poletti (era stato governatore di New York) chiede la revoca di quella decisione: non ottenendola, lo sciopero è dichiarato illegale e gli agitatori vengono arrestati. Mason-MacFarlane vorrebbe andare addirittura oltre, procedendo direttamente all’arresto dei dirigenti dei partiti. A Napoli, il 4 marzo, allo sciopero di protesta per il discorso di Churchill non aderisce pressoché nessuno.
Croce annoterà sul suo diario qual è l’atteggiamento degli Alleati su tema dell’«allontanamento del re per formare un governo democratico. Ma io ho osservato e sperimentato che gli inglesi e gli americani che maneggiano gli affari politici in Napoli, sono molto tardi nel comprendere». Churchill, caustico, lo aveva già liquidato così: «Apprendo da Harold Macmillan che Croce è un professore nano sui 75 anni che ha scritto buoni libri di estetica e di filosofia. Non ho più fiducia in Croce che in Sforza». La soluzione all’impasse l’aveva escogitata De Nicola, futuro Capo provvisorio dello Stato e primo presidente della Repubblica nonostante il credo monarchico, ottenendo il via libera da Croce e da Sforza, il quale avrebbe voluto addirittura saltare una generazione dei Savoia facendo di Maria José la reggente del piccolo Vittorio Emanuele: Umberto avrebbe esercitato le funzioni sovrane come luogotenente del Regno, con Vittorio Emanuele III nominalmente sul trono ma ritirato a vita privata in attesa dell’abdicazione formale. Terminata la guerra, a seguito di referendum popolare, un’assemblea costituente avrebbe stabilito come sarebbe stata la nuova Italia.