AGI - Era «la città più inventata della terra», e c’era del vero nella definizione di Fedor Dostoevskij. Pietro il Grande l’aveva voluta nel 1703 come "finestra sull’Europa" e l’aveva fatta disegnare dagli architetti italiani attorno al fiume Neva, di fronte al Mar Baltico: Domenico Trezzini la progettò, poi Antonio Rinaldi, Bartolomeo Rastrelli, quindi Giacomo Quarenghi e Carlo Rossi le diedero forma e bellezza, grazia ed eleganza. Adolf Hitler il 18 settembre 1941 decise invece di cancellarla dalla faccia della terra. Dopo 900 giorni di assedio Leningrado, erede di Pietrogrado e di Pietroburgo, oggi San Pietroburgo, si liberava dall’incubo dell’annientamento e il 27 gennaio 1944, esattamente un anno prima che l’Armata Rossa rivelasse al mondo gli orrori di Auschwitz, l’esercito sovietico spezzava la morsa nazista stretta attorno a una città che aveva resistito oltre ogni umano limite e all’indicibile. Quella battaglia quotidiana costò la vita di 650.000 civili e complessivamente fece almeno due milioni di vittime. Fino agli sgoccioli del XX secolo quell’assedio era stato il più lungo dell’età contemporanea, superato poi da Sarajevo (5 aprile 1992 - 29 febbraio 1996).
Leningrado era stata ribattezzata così il 26 gennaio 1924 in onore del fondatore della Russia bolscevica morto cinque giorni prima, che proprio qui aveva acceso la miccia della seconda rivoluzione del 1917 con le cannonate dell’incrociatore “Aurora”. Con l’Operazione Barbarossa scatenata il 22 giugno 1941 da Hitler la città era alla portata della dirompente avanzata della Wehrmacht e pericolosamente vicina alla Finlandia animata dal revanscismo per la sconfitta nella guerra d’inverno (30 novembre 1939 - 13 marzo 1940) voluta da Stalin proprio per strappare una fascia di sicurezza per l’antica capitale degli zar. A luglio i tedeschi erano a 150 km, a metà agosto a 30 km e Leningrado era già circondata, con la flotta sovietica del Baltico schiacciata a Kronstadt. Nella cerchia urbana i civili lavoravano fino a 14 ore al giorno per scavare trincee, approntare trappole antiuomo e anticarro, realizzare opere difensive. Tutto pur di respingere il nemico. A settembre il Maresciallo Kliment Vorosilov assumeva il comando della città fortificata con 3 milioni di abitanti mobilitati, mentre i tedeschi stazionavano a 13 km dal centro.
Le donne partecipavano a ogni fase dello sforzo bellico e le officine Kirov, eredi delle Putilov della rivoluzione, per il 70% funzionavano grazie alle giovani russe che avevano sostituito gli uomini che si arruolavano con un slancio che non aveva nessun equivalente in tutta l’Urss. Il generale tedesco Wilhelm von Leeb, aveva preannunciato una cena di gala all’hotel Astoria, il più lussuoso di Leningrado, sicuro di poter festeggiare la presa della città martellata dalle artiglierie e dai raid aerei della Luftwaffe e dalle fanterie tedesche, però sistematicamente contrattaccate. A ottobre 1941 si apre la fase dell’assedio per fame, la scelta strategica che secondo Hitler farà cadere Leningrado per sfinimento. Agli operai impegnati nei lavori più pesanti la razione di pane è fissata in 600 grammi, la metà per gli impiegati, e si scenderà via via fino a 125. Nel pane c’è di tutto, compresi i sacchi triturati che prima contenevano la farina e la cellulosa per fare massa. I cani erano scomparsi quasi subito, mangiati, così come i gatti, tant’è che appena possibile se ne dovranno far arrivare in fretta e furia quattro vagoni racimolati in tutta la Russia perché i ratti proliferavano. Nel dopoguerra sarà realizzato un monumento al gatto Elisej e alla gatta Vasilisa che combattevano un altro tipo di guerra, quella alle epidemie, alle aggressioni dei roditori alle scarse scorte di cibo e persino alle opere d’arte dell’Ermitage.
Il gelo e la mancanza d’acqua martoriavano la popolazione. Una sola via era rimasta aperta per i rifornimenti: dalla fine di novembre, con temperature di -25°, il lago Ladoga era ghiacciato per almeno due metri di profondità e questo consentiva il transito dei camion su quella che verrà subito chiamata “La strada della vita”. Non bastava però per assicurare cibo per tutti. Si diffuse ovunque la “distrofia alimentare”, ovvero la morte per fame. Anziani e bambini erano i primi a cedere, poi gli uomini, infine le donne, che si dimostravano solitamente più forti anche se si toglievano il pane di bocca per i figli. Tutto era diventato improvvisamente mangiabile: aghi di pino sbollentati, la colla per falegname e quella della carta da parati, le scarpe e le cinture, i vestiti, l’olio di lino cotto, la torba e persino la terra grassa cruda. Un tozzo di pane vale due bicchieri di terra, come ricorda un libro di Aleksandra Arseneva. Si sussurra di casi di cannibalismo.
A febbraio 1942 i decessi per inedia sono circa diecimila al giorno. Impossibile seppellire i cadaveri nella terra gelata: fame e freddo nella sfida quotidiana per la sopravvivenza e l’abitudine alla morte. Niente luce, niente riscaldamento, buio perenne dentro le case perché i vetri sono in frantumi per i bombardamenti tedeschi e le finestre sono ricoperte da qualsiasi cosa che possa proteggere dal gelo e dal vento. La radio, tramite 1.500 altoparlanti, diffonde continuamente il ticchettio del metronomo: ritmo lento e ritmo veloce esprimono la situazione, disperata per tutti, ma quando è rapido significa che stanno arrivando i bombardamenti. Nel diario di Taisija Mescankina si legge: «Quando mi avanzerà del pane sarò la persona più ricca della terra». Dal Museo dell’Ermitage sono stati portati via 1.160.000 opere d’arte e oggetti preziosi, ma non le decorazioni della loggia di Raffaello. Hitler sosteneva che «Leningrado divorerà se stessa», eppure Leningrado non si arrendeva. Era facile morire, il difficile era morire un po’ alla volta.
Il 2 luglio 1942 un aereo pilotato da un giovanissimo tenente riesce a superare il fuoco di sbarramento tedesco e a far arrivare a Leningrado un carico di farmaci e quattro volumi di carta pentagrammata. È la Settima sinfonia di Dmitri Sostakovic. Ad agosto dell’anno prima aveva dormito all’interno del Conservatorio, soffrendo per la sorte della città, patendo per la sorte dei leningradesi e offrendo l’unica arma di cui disponeva: la sua arte. Da settembre a dicembre ha composto i quattro movimenti della sinfonia che prenderà il nome di “Leningrado”, ma quando la partitura viene visionata da Karl Eliasberg, direttore capo dell’Orchestra Sinfonica di Leningrado, cade nello sconforto: l’organico classico dell’orchestra era stato raddoppiato e addirittura i corni erano otto.
Della prestigiosa orchestra, falcidiata dalla guerra e dalle privazioni, erano rimasti appena 15 elementi, eppure le prescrizioni dell’autore sono rigide. Si raccattano allora musicisti dappertutto e in qualunque condizione fisica. Il direttore Eliasberg è portato a braccia perché non ce la fa a camminare, ci sono mutilati alle gambe, feriti e degenti che hanno lasciato l’ospedale. Il 9 agosto 1942, 355° giorno dell’assedio, vengono accesi tutti i lampadari della Sala della Filarmonica, piena di gente, come se la guerra non ci fosse. La Sinfonia viene diffusa dai 1.500 altoparlanti della radio indirizzati di proposito verso le linee tedesche. Un segnale morale di portata straordinaria, la cultura più forte di tutto. Passerà un’altra estate di combattimenti e arriverà un altro duro inverno. Il 14 gennaio 1944 inizia la battaglia per la liberazione di Leningrado, ufficialmente conclusa il 27 con la liberazione.
L’epopea di Leningrado accese l’interesse di Sergio Leone, che voleva raccontarla proprio attraverso gli occhi di Sostakovic. Il suo progetto era in stato avanzato, le autorità sovietiche avevano assicurato permessi, collaborazione e supporto tecnico, ma il regista morì improvvisamente il 30 aprile 1989 e quel film rimase sulla carta. Non è stato il solo. Il Premio Oscar Giuseppe Tornatore ha firmato di recente “Leningrado”, un film mai girato frutto di cinque anni di viaggi, ricerche, testimonianze. La sceneggiatura è stata pubblicata con Massimo De Rita per Sellerio nel 2018.