AGI - L’Arte scende in campo per documentare da un’altra prospettiva il conflitto a Gaza – quella di chi vive in un kibbutz al confine Sud di Israele – e per lanciare un messaggio di speranza e pace nonostante il pesante bilancio umano, la distruzione su vasta scala, con un pensiero rivolto agli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. È questo il messaggio che arriva dal MAXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, che nella galleria video ospita, da oggi fino al 19 novembre, lo screening “Novantacinque percento paradiso, Cinque per cento inferno”.
Il titolo riprende i termini con cui molti degli abitanti dei kibbutz vicini a Gaza descrivevano la vita in prossimità del confine: una vita fatta di valutazioni quotidiane sulle opportunità di essere stabiliti in luoghi paradisiaci e sui rischi costanti. Una vita sulla linea di frontiera, dove nulla è automatico, ovviamente molto diversa da quella vissuta a Tel Aviv, a Gerusalemme o a Roma.
“Amenità fragile, assoluta bellezza in odor di orrore, luogo d’incontro tra rigoglio della vita e precarietà della stessa. Pace e guerra”, sottolineano gli organizzatori. L’installazione consente al pubblico di svolgere una visita virtuale nella Galleria Be’eri, nell’omonimo kibbutz, distrutta da Hamas lo scorso 7 ottobre, mentre proponeva un progetto a cura di Ziva Jelin e Sofie Berzon MacKie.
La lingua universale dei luoghi della cultura
“Ciò che conta oggi, nell’ospitare questa rassegna, è ricordare che l’arte sopravvive agli orrori, che i luoghi della cultura parlano una lingua universale di confronto, anche di conflitto e di denuncia, ma sempre di rispetto per la persona umana”, ha dichiarato Alessandro Giuli, presidente del MAXXI. “Per fortuna esistono antidoti alla guerra ed è un dovere per il MAXXI, che è un luogo di cultura, di arte, di dialogo e di pace, essere un porto sicuro nel dare senso e misura alla nostra società”, ha insistito Giuli. “Laddove è il pericolo cresce anche ciò che salva: l’arte e la cultura”, ha concluso il presidente del museo romano, citando Friedrich Holderlin.
“Il 7 ottobre ha rappresentato anche un colpo psicologico molto pesante per tutti gli israeliani, sia in patria che all’estero. In un contesto di morte e devastazione, all’inizio l’Arte ci sembrava superflua, un’offesa, ma poi abbiamo pensato che potesse essere un modo per comunicare cose che altri mezzi non dicono, un luogo di riflessione, di dialogo, di respiro e di speranza per tutti. L’Arte è un veicolo di pace”, ha spiegato Maya Katzir, curatrice dello screening.
In una programmazione molto fitta, la direzione del MAXXI non ha esitato ad accogliere le opere video tutte realizzate da artisti israeliani all’interno del kibbutz nel corso degli anni. “Con questo progetto vogliamo far vedere la molteplicità delle voci che esistono in Israele, la diversità: non è tutto bianco o nero. In questo momento doloroso, dopo il violento tentativo di far tacere quella pluralità di voci, qui abbiamo trovato uno spazio sicuro per consentire alla galleria bruciata di continuare a fare arte, in attesa di trovare un nuovo luogo in Israele”, ha sottolineato Katzir.
Lo screening ospitato nella videogallery del MAXXI è un filmato di 50 minuti, costituito da cinque video sottotitolati, realizzati da sei artisti israeliani e tutti girati nel kibbutz. I filmati sono opere scelte provenienti dall’installazione ospitata di recente nella Galleria Be’eri, andata completamente distrutta nel corso dell’attacco di inizio ottobre. In quel giorno del “cento per cento inferno”, i terroristi dell’organizzazione basata a Gaza hanno infatti dato alle fiamme la galleria e la mostra fotografica allora in corso, “Shadow of a Passing Bird” dell’artista Osnat Ben Dov, e oggi non ne restano che ceneri.
La Galleria Be’eri, per oltre 30 anni vivace centro culturale, è stata cancellata dalla mappa e le sue curatrici, Ziva Jelin e Sofie Berzon MacKie, sono rimaste per ore barricate nella ‘safe room’ invocando aiuto e documentando via social la catastrofe che si svolgeva fuori. Il kibbutz di Be’eri è stato uno dei luoghi maggiormente colpiti nell’attacco compiuto da Hamas, trasformando un sito paradisiaco in una distesa di cadaveri, case devastate e campi distrutti.
Oltre alla molteplicità di voci interiori, nelle opere selezionate, emergono gli sguardi che coesistono nell’animo di colui che vive nella consapevolezza di essere osservato dall’altra parte del confine e che, a sua volta, è costretto a guardare quello stesso confine con un misto di speranza e timore.
I filmati dell'installazione
Il primo filmato di Orit Ishay, “Fumo nel deserto” (2023), tratto da una storia vera e ambientato nel corso della guerra del Kippur, racconta della nascita di un’amicizia tra un soldato israeliano e un soldato egiziano prigioniero di guerra, che indurrà il primo a liberare il secondo. Ricorrendo all’inglese come lingua comune, nel corso dei loro scambi i due soldati prenderanno progressiva consapevolezza della comune umanità nella guerra.
Il secondo filmato, realizzato da Shimon Pinto, “Maktub” (Scritto/Predestinato, 2016), di impronta autobiografica, è un estratto di una più ampia installazione nel quale mani infantili scavano ossessivamente la terra brulla come per liberare qualcosa di sepolto si alternano all’immagine di uno scuro albero secco. La vicenda autobiografica a cui l’artista fa riferimento risale alla sua infanzia ed è la drammatica scoperta che lo zio del kibbutz a cui andare “a far visita” è in realtà un defunto interrato, caduto in guerra.
Tamar Nissim, con “Il posto migliore dove crescere i bambini” (2017), propone un montaggio di interviste a nove donne che abitano lungo il confine meridionale sul tema della difficoltà e delle sfide del vivere e del crescere un bambino in condizioni tanto complesse e spesso ostili, in cui la guerra è sempre alle porte.
Nella quarta opera, a firma di Nir Evron e Omer Krieger – intitolata “Nelle prove dello spettacolo delle visioni” (2014) – degli abitanti del kibbutz Be'eri recitano la poesia omonima del filmato, composta dal poeta 99enne Anadad Eldan del medesimo kibbutz, sopravvissuto all’assalto terroristico del 7 ottobre e zio del noto storico Yuval Harari. La musicalità dei versi, estremamente allitteranti, s’intreccia con le immagini di spazi interni ed esterni di Be’eri, in una fusione di volti in cui il singolo si mescola all’altro. Un filmato emblematico del collettivismo e della solidarietà del kibbutz, un’esperienza criticata anche in Israele.
Infine in “Saluki” (fiume libanese), realizzato nel 2019 da Tzion Abraham Hazan, quattro abitanti di Be’eri si ritrovano dopo cena a rievocare un tragico incidente di fuoco amico avvenuto nel corso della battaglia di Wadi Saluki, in Libano. Le loro mani ricostruiscono la vicenda ricorrendo a posate, utensili e avanzi di cibo, compresa una rapa che tutto macchia del suo rosso.