AGI - Per i tedeschi il 16 ottobre 1943 era il Samstagschlag, il colpo del sabato; per gli ebrei romani quella parola significava la razzia preludio alla Shoah. Il colpo viene sferrato nel giorno dello shabbat, in un’alba livida e piovigginosa di 80 anni fa. Le pattuglie dell’Ordnungspolizei e del Sicherheitdienst, la polizia politica agli ordini del tenente colonnello SS Herbert Kappler coadiuvata dagli specialisti dell’Einsatzkommando del capitano SS Theodor Dannecke, già dalle 4.30 presidiano le vie d’accesso al Ghetto di Roma e le principali strade.
Alle 5.30 scatta l’ordine operativo. In gruppi da due a sei militi il quartiere ebraico è percorso in lungo e in largo per stanare dalle case le famiglie ancora assopite. Le SS hanno liste precise dattiloscritte, vanno a colpo sicuro, sanno esattamente chi c’è dentro a ogni appartamento, e quando non lo sanno prelevano tutti, per non sbagliare. L’ex ammiraglio Augusto Capon, suocero di Enrico Fermi (che è andato esule negli Stati Uniti perché la moglie Laura è ebrea), sventola una lettera di Benito Mussolini ma i nazisti la considerano carta straccia: sarà ucciso il 23 ottobre, appena arrivato ad Auschwitz.
Tutto avviene in poche ore, "sotto alle finestre del Papa" Pio XII, come scrive l’ambasciatore tedesco Ernst von Weizsäcker in una preoccupata lettera a Berlino, domenica 17. Teme che il Santo padre possa pronunciarsi contro la Germania, caldeggia che gli ebrei restino a Roma o comunque in Italia, magari ai lavori forzati, come peraltro suggerito sia dal comandante militare generale Rainer Stahel sia dal console Eitel Moellhausen.
Berlino non se ne dà però per inteso e il Vaticano tace. Il 16 ottobre nelle mani dei nazisti restano 1259 ebrei. Nella Capitale ce ne sono molti più, ma nonostante la segretezza delle autorità tedesche qualcosa è sicuramente filtrato, c’è stata una fuga di notizie e la popolazione romana non è stata solo a guardare; Kappler se ne lamenta in un dettagliato rapporto dove parla di resistenza passiva e di aperto aiuto "i giudei", con episodi clamorosi che hanno avuto protagonisti addirittura i fascisti. Lui non ha voluto neanche un poliziotto italiano o un fascista di supporto per quella operazione nella Città aperta, perché sa – e scrive – che non può fidarsi di loro.
Per questo motivo il 7 ottobre ha fatto precedere il rastrellamento del quartiere ebraico dall’arresto e dalla deportazione di oltre duemila Carabinieri, poiché temeva che potessero imbracciare le armi e impedire con la forza il Samstagschlag. Il tenente colonnello SS al vertice del Sicherheitsdienst di Roma può disporre di appena 365 uomini, sufficienti solo se non ci sono di mezzo i Carabinieri ramificati sul territorio. Ha già visto qual è l’atteggiamento degli italiani sugli ebrei, perché un conto sono le Leggi razziali del 1938 volute da Mussolini, con la discriminazione, un altro lo sterminio di massa secondo quanto deciso nella Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 da Reinhard Heydrich.
Come Hitler, agli italiani Kappler rimprovera il solito “sentimentalismo” che dal 1940 e fino all'armistizio del 1943 aveva impedito loro di consegnare ai tedeschi gli ebrei nei territori sotto occupazione del Regio Esercito in Francia, Jugoslavia e Grecia. Lui non aveva avuto invece alcuno scrupolo a ricattare la comunità il 26 settembre e a farsi consegnare 50 chili d’oro con la falsa promessa che non avrebbe deportato nessuno. Il blitz nel Ghetto si conclude verso mezzogiorno: l’obiettivo dell’operazione, fin allora da tenere nella massima "segretezza" per condurre con "fulmineità" la cattura di "tutti gli ebrei di Roma, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione", è di condurli nel Reich e "liquidarli". La “Soluzione finale”, insomma, che ha come meta la fabbrica dello sterminio, Auschwitz-Birkenau.
Gli arrestati sono rinchiusi nel Collegio Militare di via della Lungara e poi separati: da una parte gli uomini, dall’altra donne e bambini. Nella notte sono rilasciate 252 persone, appartenenti a famiglie miste, oppure perché personale “ariano” in servizio presso famiglie ebraiche, coinquilini, cittadini vaticani. I restanti 1007, tra cui una suora cattolica, lunedì 18 sono portati alla stazione Tiburtina sotto scorta di appena 30 SS, dove andranno a riempire tre convogli merci, con 50-60 persone per ogni vagone, senza cibo né acqua.
Qualcuno, durante il tragitto verso nord, riesce a scrivere bigliettini e lanciarli fuori sperando in mani pietose che informino parenti e amici. Non possono neanche immaginare il loro destino, sanno quello che hanno letto su un ciclostilato in italiano approssimativo consegnato al momento del rastrellamento, ovvero che devono portare viveri per otto giorni.
I treni sono diretti ad Auschwitz. Quando arrivano a destinazione, il 22 e il 23, quelli ritenuti dai medici SS in grado di lavorare sono messi in una fila, mentre gli altri, le donne, gli anziani e i bambini in un’altra; chi sta in questa viene mandato a fare la doccia. Terminata la gassazione con lo Zyklon B, i cadaveri vengono bruciati nei forni crematori dopo aver strappato dalla bocca con le pinze i denti d’oro.
Dei 1007 rastrellati nel Samstagschlag torneranno a casa appena 15 uomini e una donna, Settimia Spizzichino. Il totale degli ebrei romani deportati nei campi di sterminio durante i nove mesi di occupazione nazista è di 2091 (1067 uomini, 743 donne, 248 bambini): sopravvivranno alla Shoah appena 73 uomini e 28 donne.