AGI - "Dite a mio padre che ho avuto coraggio fino all'ultimo e che non rimpiango nulla". Con queste parole Vittoria Nenni, terzogenita del leader socialista, si congedò da questa terra, il 15 luglio 1943. All'inizio di quell'anno il numero 31.635 marchiato sul braccio di Vivà, come la chiamano i familiari, è già una condanna a morte, ma lei affronta i sei mesi di detenzione nel campo di sterminio di Auschwitz con una determinazione che a leggerla oggi pare possibile solo negli eroi della mitologia.
La sua storia, tragica e piena di coraggio, viene raccontata da Antonio Tedesco, nel libro "Vittoria Nenni, n. 31635 di Auschwitz" (Arcadia edizioni), che esce a ottant'anni dalla morte di Vivà e che viene presentato a Roma, martedì 27 giugno, alle ore 16, presso il Centro Convegni “Bruno Buozzi” in via Lucullo 6. Un volume emozionante, che racconta con particolari inediti la vita coraggiosa di Vivà, nel contesto della resistenza italiana, francese e degli orrori dell'Olocausto.
Vittoria era nata ad Ancona, il 31 ottobre 1915, mentre Nenni si trovava a combattere al fronte in piena prima guerra mondiale. Sua figlia si chiama Vittoria, proprio come auspicio al successo delle truppe italiane e degli alleati contro Germania e Austria. A 11 anni ha il suo primo incontro diretto con il fascismo.
Mentre rientra a casa, trova una squadra di camicie nere che stanno distruggendo l'appartamento. Uno la prende per un braccio e minaccia di far fare al padre la fine di Matteotti. La paura è tanta e, dopo quell'episodio, Pietro Nenni decide di prendere la via dell'esilio. La moglie e le figlie lo raggiungeranno a Parigi quasi un anno dopo, beffando la sorveglianza del regime.
Deportata ad Auschwitz
Quando scoppia la seconda guerra mondiale, Vittoria prende parte alla resistenza francese assieme al marito. Scoperti, vengono incarcerati. Il marito è fucilato, lei e le sue compagne caricate su un treno per Auschwitz in condizioni disumane. Vittoria, in realtà, avrebbe potuto salvarsi rivendicando la sua nazionalità italiana.
"Non lo fece - sottolinea Tedesco - perché non voleva essere trasferita in Italia, probabilmente sperava che il marito fosse ancora vivo e non voleva lasciare quel carcere.
Poi Pietro Nenni disse che non aveva voluto favori e seguì la sorte delle sue compagne di lotta. Con ogni probabilità c'è un po' di vero anche in questo". Rimane, però, un elemento inconfutabile: "Vivà, la figlia meno politicizzata di Nenni, quella che meno si era interessata alle battaglie del padre, decide di aiutare la Resistenza francese e finisce ad Auschwitz".
Nel campo di concentramento la vita è molto dura, si marcia o si lavora per molte ore al giorno, con una divisa troppo leggera per la neve invernale e troppo pesante per la calura estiva; il rancio è assolutamente insufficiente e i giacigli sono blocchi di cemento con cuccette sovrapposte senza neppure della paglia.
In quelle condizioni, Vivà sopravvive sei mesi, poi si arrende probabilmente a una febbre tifoide. "Le poche compagne sopravvissute - racconta Tedesco - la ricorderanno con affetto e gratitudine, perché ha salvato diverse vite, curando chi aveva preso il tifo. Probabilmente morì a causa di questo suo altruismo".
L'agonia della famiglia
Finita la sua agonia, però, inizia quella della famiglia, che non riesce ad avere sue notizie. Il libro di Tedesco, delinea anche il tormento di Pietro Nenni, nel cercare informazioni su Vivà. Il leader socialista apprende della morte di sua figlia solo il 29 maggio 1945.
A comunicargliela è il primo ministro, Alcide De Gasperi. I due si sciolgono in un abbraccio pieno di commozione e lacrime. Nel suo diario, Nenni annota: "La parola che mi va più diretta al cuore è quella di Benedetto Croce: 'Mi consenta di unirmi anch'io a Lei in questo momento altamente doloroso che Ella sorpasserà ma come solamente si sorpassano le tragedie della nostra vita: col chiuderle nel cuore e accettarle perpetue compagne, parti inseparabili della nostra anima'”.