AGI - "Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l'immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell'aria un quadrupede dai lunghi baffi e l'anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida". No, non fu questa la vera fine di Bendicò, il cane - 'chiave di lettura' de "Il Gattopardo" - al quale Giuseppe Tomasi di Lampedusa riservò nel romanzo un destino triste insieme a quello della casata.
Bendicò, invece, ebbe una sorte degna: fu imbalsamato, e ve ne sono le prove: "Non fu un'invenzione di Giuseppe Tomasi né di Luchino Visconti: questo gigantesco 'cane di terranova con gli occhi di vetro' esisteva, e fu imbalsamato nel 1882, affidato alle mani di Giuseppe Modena della Regia Università di Palermo per la somma di lire 81", spiega lo storico Salvatore Savoia, che ha scoperto la ricevuta dell'imbalsamazione tra i documenti inediti della lite sulla eredità di Giulio Tomasi, bisnonno dello scrittore, ovvero il 'don Fabrizio' del 'Gattopardo'. "La sua scomparsa e la sua ricomparsa - aggiunge Savoia - mi hanno un poco commosso".
La lite legale durò 65 anni, dal 1885 al 1950, e vide soluzione quando delle ricchezze della famiglia non esisteva più nulla: lo scrittore, che solo dopo la morte vide pubblicato il suo capolavoro, si ritrovò povero, senza neanche i soldi per comprare un soprabito e partire con il cugino, il poeta Lucio Piccolo, alla volta di San Pellegrino Terme: fu così che il principe di Lampedusa sbarcò in agosto in Lombardia con un cappottone pesante, ma meno soffocante di una madre, donna Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò, che minava parecchio la sua sicurezza.
Povero in canna dopo le liti giudiziarie sull’eredità del bisnonno, dovette accettare per campare un incarico di presidente della Croce Rossa. Alle spalle, ormai perdute, si lasciava, tra i possedimenti finalmente sbloccati dall’eredità, oltre a palazzi, somme, persino le terre dove oggi sorge la discarica di Bellolampo, tutto nel frattempo venduto o cancellato. Restava il castello di Montechiaro, nell'Agrigentino: un rudere, in cui la moglie di Tomasi, Licy, l'energica baronessa lettone Alexandra von Wolff-Stomersee, si convinse che la coppia doveva trasferirsi dalla misera pensione in piazza Politeama, sotto gli occhi di tutti i nobili cittadini, unico rifugio perché' palazzo Lampedusa stava crollando dopo la distruzione delle bombe del '43.
Giuseppe Tomasi, per dissuadere la moglie dal progetto, inventò una finta corrispondenza con i carabinieri di Palma di Montechiaro che "sconsigliavano" il trasferimento, giudicato poco sicuro in tempi di rapimenti frequenti. La baronessa Licy per fortuna desistette dal progetto e la coppia rimase a Palermo, dove proprio oggi sono iniziate le riprese della serie Netflix "Il Gattopardo". I sei episodi, prodotti da Indiana Production e Moonage Pictures, saranno interpretati da Kim Rossi Stuart, Benedetta Porcaroli, Saul Nanni e Deva Cassel, con un casting di 2.500 comparse tutte residenti in Sicilia e il coinvolgimento di una considerevole quantità di maestranze locali. I documenti inediti della lite giudiziaria saranno presentati sabato prossimo nel capoluogo siciliano sotto il Famedio di Casa Professa, per il Genio di Palermo, organizzato dalla Fondazione Le Vie dei Tesori con l’Università.