AGI - La “femme fatale”? Non è mai esistita, titola il Paìs, citando un saggio che ne smonta il mito nell’ambito della letteratura e del cinema, considerandolo invece come “un riflesso misogino per contrastare la paura storica della liberazione delle donne”. Detta in soldoni, si tratta di stereotipo che rivela invece “una fatale concezione del desiderio da parte degli uomini di controllare chi non poteva sottomettersi alla propria volontà”, sottolinea il giornale.
Racconta la filosofa Elisenda Julibert, 48 anni, di Barcellona, autrice del saggio in questione, “Hombres fatales”, che “in molti anni di lettura, ho capito che la femme fatale non aveva tratti fissi, al di là del suo carattere sfortunato. Era bionda o bruna, fredda o calorosa, sincera o bugiarda, timida o determinata, focosa o gelida. In realtà, è tanto vario e mutevole quanto il desiderio di chi ha immaginato questi personaggi”. In definitiva, il loro carattere era illusorio, quale prodotto delle fantasie e delle frustrazioni degli scrittori che le descrivevano.
Se ci si rifà, ad esempio, all’espressione tipica – “cherchez la femme” – qui c’è anche la chiave per capire che “ogni difficoltà in cui è coinvolto un uomo c’è sempre l'intervento di una donna perfida” quindi “questa storia culturale della femme fatale come capro espiatorio inizia con ‘Susanna e i vecchioni’ (1610), il dipinto di Artemisia Gentileschi che reinterpreta la storia biblica di due vecchi affascinati da una giovane donna nuda”.
Osserva la filosofa: "Avevo visto dozzine di dipinti su questa storia, ma dalla sua versione ho capito che descriveva un abuso di potere e un tentato stupro", dice Julibert, che assicura che l'artista ha costretto lo spettatore a identificarsi con il suo protagonista. Quasi una parabola sul potere travolgente della bellezza.
Il saggio di Elisenda Julibert aspira in definitiva a imporre un simile cambio di prospettiva attraverso due coppie di esempi che dialogano tra loro: il primo è un confronto tra Carmen, “la madre di tutte le moderne femme fatales”, e la Lolita di Nabokov. Ancora una volta, insomma, il narratore “è un uomo accusato che cerca di convincere il lettore della sua innocenza e accusa una donna che lo ha sedotto con arti malvagie”.
“È una rilettura di Carmen in una versione grottesca e selvaggia, ma anche molto sottile. Ho dovuto leggere Lolita tre volte per capirne il carattere parodico”, racconta l'autrice, che conclude: “La misoginia ha il potere di riformularsi all'infinito. La femme fatale potrebbe scomparire, ma presto appariranno altre terribili creature mitologiche".