AGI - Quattro anni dopo Nuovo Cinema Paradiso, Giuseppe Tornatore nel 1992 immagina un “paradigma analogo” attraverso un altro “mito buono” da evocare: non più quello del cinema come frenetica attività quotidiana di un tempo appena tramontato, ma della politica che, vissuta con passione e dedizione, a ridosso di Tangentopoli comincia a perdere interesse generale – ciò che spiega oggi il dilagante astensionismo elettorale.
Nell’anno delle efferate stragi di mafia, dei più profondi rivolgimenti del sistema politico nazionale, il regista premio Oscar, appena reduce da un film dello stesso spirito, 'Stanno tutti bene', racconto di un mondo interiore stravolto e perduto, si estranea dal turbinoso presente e guarda al passato per scoprire un “paradiso” che non c’è più, il Partito comunista. Pensa perciò a un film di cui decide anche il titolo, “All’èpica” (espressione siciliana che indica un’epopea fatta di avventure e ardimento) e comincia a raccogliere il materiale necessario alla sceneggiatura.
Munito di un registratore, torna a Bagheria e registra interviste a protagonisti e testimoni degli anni ruggenti del Pci siciliano, tutti conoscenti del padre che è stato dirigente di partito e fervido militante. Ne raccoglie diciotto e stende il soggetto che propone a Cecchi Gori, il quale gli dice: “Meglio non farlo. Amico mio, il film è bello, ma ci sono troppe bandiere rosse. Lasciamo perdere”.
Il maggior pregio del progetto, per la capacità di rialbeggiare al meglio e fedelmente un’epoca storica, diventa un difetto e Tornatore desisterà dal proposito di realizzare il film, riponendo in un cassetto tutte le registrazioni audio, ma conservando per il film che uscirà diciassette anni dopo, Baaria, sulla Sicilia vista da una prospettiva più intima, “alcune suggestioni, qualche immagine, sedimentazioni di tutta quella ricerca durata mesi”.
Sono parole che oggi compaiono nell’introduzione di Tornatore al libro 'All’èpica' pubblicato da Albatros che tutte quelle registrazioni raccoglie trascritte così come furono prese, nel dialetto e nella parlata originale. Un libro uscito esattamente trent’anni dopo, dove il solo elemento di attualità è la data di morte aggiunta nelle biografie degli intervistati, tutti nomi che hanno fatto davvero epoca: da Francesco Renda, a Napoleone Colajanni, da Emanuele Macaluso ai tanti artefici oggi sconosciuti che hanno infiammato una stagione in paradiso: Girolamo Scaturro, Giuseppe Speciale, Mimmo Drago, Gustavo Genovese - dirigenti, sindacalisti, attivisti perlopiù delle province di Palermo e Caltanissetta testimoni fulgidi di un tempo nel quale la politica era un fatto personale.
Ma perché mai Tornatore ha atteso trent’anni per pubblicare questo libro? E soprattutto, perché non ha pensato sin dal primo momento proprio al libro anziché al film, facendo come Danilo Dolci, che in libri quali Banditi a Partinico e Inchiesta a Palermo aveva negli anni Cinquanta raccolto interviste prese nelle stesse zone pur creando l’affresco non di un’umanità febbricitante quanto di un territorio martoriato?
Ammette il regista all’Agi: “In realtà non avevo mai pensato di trarre un libro da tutte quelle interviste e davvero non mi aveva mai sfiorato il pensiero che quelle testimonianze potessero avere una seconda vita”. Da non credersi, perché All’èpica è un capolavoro assoluto, un documento unico, originale e preziosissimo che dà conto di una coscienza popolare che mai la storia avrebbe potuto interpretare nella sua reale portata, né un film sarebbe stato capace di riportare per via dell’esuberante varietà e ricchezza di episodi, vicende, aneddoti, casi, imprese, drammi privati e sociali che il libro compila come un rapporto dal vero e dal crudo, dove personaggi noti, figure anonime, eroi popolari si avvicendano per narrare la stessa storia umana, quella che dall’immediato Dopoguerra arriva agli Sessanta restituendo un mondo sconosciuto. Il film più bello non sarebbe mai valso il libro, come del resto tutti i film tratti da romanzi. Nondimeno Tornatore questo ha fatto: ha lasciato per trent’anni in un cassetto un documento che può ben dirsi patrimonio dell’umanità.
Se il libro è ora finalmente disponibile, il merito non è del regista ma di un piccolo editore. “Poco tempo fa – continua Tornatore ricostruendo la genesi del volume – l’editore Enzo D’Elia, con il quale avevo pubblicato alcuni libri tra i quali uno su Francesco Rosi e un altro su Ennio Morricone, cominciò a insistere perché concepissi un altro testo da pubblicare. Ma non avevo tempo per scrivere un libro e declinai l’offerta. Enzo cercò di convincermi a cercare tra i miei archivi qualcosa che si potesse mandare alle stampe. Perseverò nel suo intento sino a stremarmi. Fu così che mi vennero in mente quelle interviste registrate più di trent'anni prima. Furono la mia salvezza. Ma senza l’ostinazione di D’Elia, All’èpica non esisterebbe”.
Poco male. Il libro (che forse non si presta a una platea non siciliana perché avrebbe richiesto la traduzione di molte parti) integra una Sicilia sullo sfondo dei grandi fenomeni sociali del Dopoguerra - dall’ammasso del grano e l’intrallazzo all’occupazione delle terre alla riforma agraria – e dei grandi eventi storici come la strage di Portella, lo sciopero degli operai dei Cantieri Navali di Palermo, la sparatoria di Villalba, la rivolta dell’8 luglio 1960: protagonisti sempre i contadini organizzati nella Camera del lavoro e nel Pci, portatori del sogno infine infranto dell’uguaglianza e del benessere.
“Il partito contro i ricchi”, com’era chiamato il Pci, è visto nel repertorio di testimonianze proposte come la rappresentazione dinamica di un’isola che non c’è, tale da fare dire a Tornatore a un intervistato: “Io sto cercando la storia non ufficiale del partito, la storia che non ha raccontato nessuno”. E si tratta di una storia fatta di miti e di riti fondati sul credo ferreo nei totem del partito: l’autocritica, la vigilanza rivoluzionaria, il centralismo democratico, la scuola di partito, il deviazionismo.
Tornatore vuole rendere tali principi in forma plastica attraverso episodi reali da mutare in scene da girare sul set. E ne trova centinaia:
- il piccolo contadino che vende ogni anno un vitello per pagare l’affitto della sezione;
- il compagno che dice in assemblea a un dirigente che è un mafioso perché non è stato ucciso come gli altri;
- quello che, dopo quattro ore di comizio di Bufalini, dice ai figli esausti di fare un po’ di sacrifici;
- i topi sul palco mentre parla De Gasperi;
- il mafioso schiaffeggiato e mandato via nella certezza che la massa ne avrebbe linciato un paio a una sua reazione; la sezione di partito condivisa in parte con una giovane coppia povera;
- il ministro che agli agricoltori preda della crisi dei limoni dice di piantare verdelli e non più limoni; i chiodi per strada per fermare le auto dei crumiri e gli assi allentati nei carri;
- il padre monarchico e la figlia comunista che si azzuffano in piazza; i volantini comunisti con la foto di Papa Giovanni;
- il prete che dalla finestra parla contro i comunisti subito dopo un loro comizio;
- l’altro, fratello di un boss, che distribuisce buoni Eca;
- i carrarmati americani trasformati in trattori; la compagna sovietica fatta salire sul palco per mostrare che non ha la coda;
- la processione che finisce in un comizio. È solo un ristrettissimo campionario del vasto numero di bozzetti consegnati a Tornatore.
Al culmine di essi forse primeggia l’episodio che meglio definisce cos’è la mafia: a Ciaculli due militanti si propongono di distribuire volantini pur temendo i mafiosi padroni del quartiere. Uno dei due, riconoscendo l’uomo che si para loro davanti, dice all’altro: “Non ti spaventare, questo è il capomafia”. Un’espressione venuta da un semplice contadino dentro la quale c’è tutta intera la storia di Cosa nostra.