AGI - Lo studio di anfore romane recuperate in mare ha rivelato segreti di produzione e conservazione del vino da parte degli antichi romani. La ricerca diretta dall'Università francese di Avignone, pubblicata sulla rivista Plos One, suggerisce che per fabbricare il vino, gli antichi romani utilizzavano uva autoctona, mentre per conservarlo lo inserivano in anfore impermeabilizzate con della pece, ovvero una miscela costituita essenzialmente da idrocarburi. Gli studiosi hanno basato la loro ricerca su tre anfore di epoca romana recuperate nei fondali marini nei pressi di San Felice Circeo, 90 km a Sud-Est di Roma.
I marcatori chimici, insieme ai residui di tessuto vegetale e al polline rinvenuti nelle anfore, sono stati essenziali per confermare la presenza di derivati dell'uva e del pino nelle giare.
Hanno evidenziato che nei processi di vinificazione del vino rosso e bianco, il pino serviva per creare catrame e impermeabilizzare le giare, ma forse anche per aromatizzare la bevanda, come già osservato in altri studi archeologici.
Il polline della vite identificato negli antichi contenitori corrisponde a quello di specie selvatiche della zona, suggerendo che questi viticoltori utilizzassero piante locali. Il catrame derivante dal pino invece non era locale, pertanto secondo gli studiosi è stato probabilmente importato dalla Calabria o dalla Sicilia.
L'esito importante di questa ricerca è la riprova dei benefici di un approccio multidisciplinare quando si tratta di indagare pratiche culturali a partire da reperti archeologici.
In questo caso, l'identificazione dei resti vegetali, l'analisi chimica, la documentazione storica e archeologica, la progettazione delle anfore e i reperti precedenti hanno contribuito alle conclusioni, consentendo di "interpretare una storia al di là dei manufatti che non sarebbe possibile utilizzando una sola tecnica", hanno sottolineato gli autori. "Se dovessimo ricordare un solo messaggio dalla lettura di questo articolo, sarebbe correlato alla metodologia multidisciplinare applicata", ha concluso Louise Chassouant, chimica dell'Università di Avignone.