AGI - “Alla fine lui muore”. E’ il geniale epitaffio che dà il titolo al secondo romanzo (edito da Giuntina) di Alberto Caviglia, regista, sceneggiatore satirico e scrittore. Dopo ‘Olocaustico’ esordio letterario che ha fatto discutere e diventerà un film, stavolta Caviglia, 37 anni, che presenterà il suo nuovo romanzo a Roma domenica 5 dicembre alla kermesse ‘Più libri più liberi’, ha scelto una satira letteraria della sua generazione: quella dei trentenni e passa, fascia anagrafica , sottolinea con AGI, “particolarmente sfigata” alle prese con un cammino impervio e a metà strada rispetto a quella di genitori con molte più certezze e disponibilità e a quella dei giovani iperdigitalizzati della generazione Z.
Non a caso gli stessi giovani trentenni in affanno, che si sognavano professori e invece vendono scopettoni per il bagno disegnati da Zerocalcare nella docuserie ‘Strappare lungo i bordi’.
“Zerocalcare è stato il più bravo a individuare e raccontare in modo geniale le inadeguatezze di noi trentenni” analizza Caviglia, che in quanto ad originalità sulla pagina scritta non è da meno. Ha scelto di dare luce alla categoria dei “giovani vecchi” attraverso la gustosa storia del protagonista Duccio Contini, promettente scrittore di successo in crisi di ispirazione dopo il suo primo romanzo, che un giorno, svegliandosi, si accorge di essere diventato felicemente vecchio, con le giunture scricchiolanti e un’insana passione per tisane, plaid, semolino e relative serate casalinghe che lo sottraggono all’obbligo giovanilista di apericene e uscite notturne.
“La sua nuova condizione senile gli fa vivere un periodo bellissimo, liberatorio – spiega – l’ansia lavorativa diventa un ricordo, così come le pressioni familiari e le scuse che era costretto a inventarsi per non uscire la sera con gli amici”.
Ma quanto c’è di Caviglia in quel Duccio Contini scrittore ebreo che dopo il suo primo romanzo “Il talismano del ghetto” è in crisi di ispirazione, con relativa delusione della famiglia certa di avere un genio in casa? “Duccio inventato durante la pandemia, è nato da una sensazione di sconforto che ho davvero provato, per una serie di aspettative che, complice il lockdown, non stavano andando a buon fine - chiarisce – ma rappresenta un’inadeguatezza generazionale. Credo che la pandemia abbia semplicemente esasperato ed accelerato le nostre difficoltà esistenziale preesistenti, il sentirsi spesso fuori posto e la sensazione di non sapere quale strada prendere per affermarsi”.
Tra estatiche soste senili del protagonista davanti ai cantieri, shopping in farmacia, lista di epitaffi e motivi che rendono “più facile l’idea di abbandonare questo mondo” (dai messaggi vocali a quelli che si lamentano sempre del clima) la condizione esistenziale del giovane vecchio è raccontata con la consueta ironia. Ma ‘Alla fine lui muore’ diventerà un film? “E’ la prima volta che ho scritto qualcosa senza pensarla come sceneggiatura per un film - spiega il regista di ‘Pecore in erba’– ma ovviamente mi divertirebbe molto”.
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