AGI - “Il mio nome si pronuncia 'comma-la'. Significa 'fiore di loto', che è un simbolo importante nella cultura indiana. Il loto cresce sott’acqua, e il suo fiore fuoriesce dalla superficie quando le radici sono ben piantate nel fondale del fiume”. Si presenta così Kamala Harris, la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti dopo essere stata la prima in tante altre funzioni (prima donna procuratore generale della California, prima afro-asioamericana ad essere eletta al Senato) nella sua autobiografia ‘Le nostre verità’ dal 28 gennaio il libreria edito da 'La nave di Teseo' nella collana ‘i Fari’.
Pubblicato in America a gennaio 2019 col titolo ‘The Truths We Hold: An American Journey’ (Le verità che abbiamo: un viaggio americano), questo libro è scritto prima che la vita della senatrice democratica fosse stravolta dagli eventi che l’hanno portata ad affiancare Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca e arrivare lassù dove mai una donna era arrivata, sullo scranno della seconda carica degli Stati Uniti. Per questo, forse, ancor più interessante perché la Harris, nata a Oakland in California da madre indiana, immigrata da Chennai, e da padre di origine giamaicana, si mette a nudo raccontando la sua infanzia, l’impegno civile dei genitori, ma soprattutto della madre Shyamala Gopalan (il padre Donald, professore di Economia, se ne andò quando lei e la sorella Maya erano ancora piccole, pur restando sempre presente nella loro vita), endocrinologa impegnata nella ricerca contro il tumore al seno. In questo libro Kamala si racconta, parla della sua esperienza fin da bambina a contatto con le comunità di colore, spiega di essersi nutrita con le discussioni sulla giustizia sociale (ricorda che la madre le raccontava che da piccina faceva i capricci e lei le chiedeva: “Cos’è che vuoi?”. Kamala rispondeva: “Libbettà!”).
Nelle oltre 350 pagine del libro la Harris ripercorre, con dettagli e aneddoti importanti, le tappe da lei bruciate durante una carriera ricca di soddisfazioni e grandi risultati. Una carriera iniziata, dopo la laurea alla Howard University e all'Hastings College of the Law di San Francisco, nell’ufficio del procuratore distrettuale della contea di Alameda (dove ha lavorato dal 1990 al 1998) e proseguita quando ha fatto il primo grande passo in politica, candidandosi e venendo eletta nel 2003 procuratore distrettuale di San Francisco dove è rimasta in carica, dopo la rielezione nel 2007, fino al 2011. Nel 2010 la candidatura a procuratore generale della California e l’ennesima vittoria diventando la prima donna a ricoprire tale carica, oltre che la prima persona asioamericana. Rieletta ancora nel 2014, come procuratore generale della California la Harris ha perseguito gruppi criminali internazionali, grandi banche, compagnie petrolifere e università private, e si è opposta agli attacchi diretti contro l’Obamacare (la riforma del sistema sanitario del presidente Obama). Si è inoltre battuta per ridurre l’assenteismo nelle scuole elementari, ha aperto la strada alla prima divulgazione a livello nazionale di informazioni sulle disparità razziali nel sistema giudiziario penale, ha introdotto corsi di formazione sui pregiudizi per gli agenti di polizia.
La carriera della Harris ha poi toccato una vetta quando nel 2016 è diventata la seconda donna nera a essere eletta nel Senato americano (la prima afro-asioamericana). In Senato, come racconta ampiamente nella sua autobiografia, ha lavorato per riformare il sistema di giustizia penale degli Stati Uniti, aumentare i salari minimi, rendere l’istruzione superiore gratuita per la maggior parte degli americani e tutelare i diritti dei rifugiati e degli immigrati.
Leggere oggi ‘Le nostre verità’, quando Kamala Harris è diventata vicepresidente degli Stati Uniti, è ancora più interessante perché si legge di una ragazza cresciuta a pane e diritti civili, impegnata da sempre nella difesa delle donne e contro le ingiustizie. Convinta che lo Stato deve farsi carico dei problemi di chi è più debole (“Nel nostro Paese un crimine contro un qualunque cittadino è commesso contro tutti noi – scrive – ecco perché i pubblici ministeri non rappresentano la vittima, loro rappresentano ‘il popolo’, la società nel suo complesso”), che il futuro si costruisce tutti insieme, che “un patriota non è qualcuno che giustifica la condotta del proprio Paese qualsiasi cosa esso faccia; è uno che combatte ogni giorno per gli ideali della nazione, a qualunque costo”.
E non dimentica, nell’ultimo capitolo dedicato a ‘quello che ha imparato’ di citare i movimenti per i diritti delle persone di colore Black Lives Matter e quello contro le molestie sessuali (soprattutto da parte degli uomini nei confronti delle donne) #MeToo. Ma lo fa elevando la protesta da cui hanno avuto origine al rango di rivendicazione per i diritti civili. “Black Lives Matter non può essere soltanto un invito a unirsi per le persone di colore – scrive Kamala Harris – ma uno stendardo sotto cui devono riunirsi tutte le persone perbene. Il movimento #MeToo non può attuare cambiamenti strutturali durevoli per le donne sui luoghi di lavoro, a meno che non vi aderiscano anche gli uomini. Le vittorie conseguite da un gruppo possono portare a vittorie per altri, nei tribunali e nella società considerata nel suo insieme. Nessuno di noi – nessuno – dovrebbe essere costretto a lottare da solo”, conclude.
Quindi una considerazione che oggi vale come una dichiarazione programmatica, soprattutto da parte di un’amministrazione che arriva dopo quella di Donald Trump: “Se siamo abbastanza fortunati da trovarci in una posizione di potere, se la nostra voce e le nostre azioni possono innescare un cambiamento, non abbiamo forse un obbligo speciale? Essere alleati di una causa – scrive la vicepresidente degli Stati Uniti – deve tradursi in azione. Sta a noi lottare per coloro che non siedono al tavolo dove vengono prese decisioni capaci di incidere sulla vita della gente”. E alla fine della sua biografia, scritta quando ancora ignorava di essere destinata a raggiungere una vetta politica mai toccata da alcuna donna negli Usa (anche se profeticamente nel libro cita la mamma che le diceva sempre: “Puoi essere la prima. Non essere l’ultima”), Kamala anticipa quello che sarebbe poi diventato il punto numero uno del programma del presidente Biden e della sua vice: “La mia sfida quotidiana con me stessa consiste nell’essere parte della soluzione, nell’essere una guerriera gioiosa nella battaglia a venire. La mia sfida per voi è di unirvi a questa impresa. Di alzarvi in piedi per i nostri ideali e i nostri valori”.
E conclude: “Tra qualche anno, i nostri figli e i nostri nipoti alzeranno lo sguardo e ci fisseranno, domandandoci dove fossimo, quando la posta in gioco era così alta. Ci chiederanno com’è stato. E io non voglio che diciamo loro semplicemente come ci sentivamo. Voglio che diciamo loro che cosa abbiamo fatto”.