Ma no, lo stile “non ha niente da spartire con la forma, non è un fatto estetico”. Lo stile è “in un altrove irraggiungibile, in qualcosa che vedi ma non tocchi, che sogni ma non trovi, e ti lascia dentro quella malinconia che non toglie la luce dal tuo sguardo, ma lo vela. Quello è il tuo stile, la strada maestra dove chi ti cerca non ti trova, il sentiero dove chi si avventura trova solo te”. Già in quarta di copertina si dichiara la poetica di Antonio Franchini, ribadita con Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani (NN Editore, pp.256, euro 17). Esce a dieci anni dal suo libro precedente, Signore delle lacrime, perché è tracciato anche sul rarefatto passo temporale, senza timore delle assenze, lo stile di un autore cui ogni recensione associa, per dovere d’ufficio, la qualità professionale di Lettore con la “elle” maiuscola riconosciuta al più celebrato editor italiano.
“La prosa è architettura, non decorazione d’interni, e il Barocco è finito”: questa la massima che dettò Hemingway in Morte nel pomeriggio, fra i libri ispiratori di Franchini nel racconto A un aficionado, dove le suggestioni della corrida, di tori e toreri e di un’arte tremenda vengono rilavorate per interrogarsi sulla vita e la perdita, sulla passione e il suo senso rispetto all’incombenza della fine, la cui rimozione è praticabile ma inammissibile per un toreo de verdad o per una scrittura che non sia semplice “decorazione d’interni”. È questa la sincerità dello stile che “non è un fatto estetico”, ma emana dalla sognata dimensione cui aspira chi scrive, chi pratica la lotta, chi s’arrampica in montagna o sfida sifoni fluviali in canoa. E questo è il mondo di Franchini scrittore, maestro di Brazilian jiu-jitsu, canoista, pescatore, con la sua necessità di un corpo immanente che metta ogni racconto al riparo da manierismi e da bugie.
Fra i cento motivi per cui si scrive, o per cui si frequenta una palestra di lotta per tutta la vita (gloria, vanto, amore, sfogo, frustrazioni ma persino abitudine), quelli essenziali si riassumono forse nella “sfida al tempo e alla morte”. “Le stesse ragioni”, dice Franchini nel racconto che dà il titolo alla raccolta, “per le quali ci si impegna in qualunque altra cosa, le stesse ragioni che, quando mancano, inducono a buttarla, la vita”. È una malinconia non intimista, ma da danzatore shivaita il fil rouge che muove le riflessioni dei suoi alter ego (riemerge da Acqua, sudore, ghiaccio anche quello di Francesco Esente) e dei tanti volti affacciati sulla vita dell’autore – fra cui quanti fantasmi – lungo un tempo dilatato dall’adolescenza a oggi fino all’adolescenza dei figli dove la sua si rispecchia. Nel racconto Leonardiadi è questo l’anno in cui lui padre non partecipa alla corsa dei genitori che chiude il torneo sportivo della scuola: “Perché non vuoi mostrare che sei stanco” oppure “perché non sei mai stato in grado di dare il tutto per tutto?” si domanda il narratore, ma è al lettore che è lasciata la risposta.
È lo stesso tipo di domanda che il tempo ripropone nelle palestre di arti marziali, dove lo stagionato praticante “sa dire esattamente cos’ha perso da un anno con l’altro, e a ognuno di questi smottamenti ha fatto l’abitudine ricorrendo a una serie di trucchi per attenuarli”. È lo stesso tipo di domanda che può essere girata alla celeberrima statua del pugile a riposo nel Museo nazionale romano o che questi potrebbe rivolgere a chi osserva, quando “ti lascia dentro quella malinconia che non toglie la luce dal tuo sguardo, ma lo vela”. Come i suoi occhi vacui e indecifrabili tagliati dentro il bronzo. Perché sicuramente possedette qualche stile che non fu “un fatto estetico”. E ancora lo possiede però sempre in un ”altrove irraggiungibile”.
Poi quelli di Franchini, per chi i libri non ama sottolinearli, vanno riletti sempre un po’ di tempo dopo, per ripescare dalla prosa molte parole e frasi o capoversi su cui l’avidità di leggere ha impedito di indugiare come quando – assistendo a un match di boxe, a un incontro di scherma – vuoi rivedere alla moviola le sfumature di una tecnica riuscita che la rapidità agonistica quasi nascose.
È quello il momento di girare la moneta per leggerne il rovescio, come il vecchio Borges per il quale l’oblio era il lato b della memoria, quello forse anche più amato da Franchini da quando una sera scoprì dietro le quinte di un teatro – sta nelle pagine iniziali di L’abusivo – “che, rispetto alla scena del mondo, stavo meglio dietro che avanti”. Sono di volta in volta le quinte della letteratura e dell’arte marziale, dell’editoria e della scrittura perché è vero: “Tutti coloro che durano in un’attività sono quelli per cui quell’attività è un’altra cosa”. Sicché, nel racconto Non ho scopato con Hemingway, lo scrittore narra il pomeriggio di un editor capace di sopportare, con impassibilità franchiniana, capricci e scazzi e paturnie di una coppia scoppiata di iconici intellettuali. Visti dietro le quinte, a moneta capovolta, riescono così piccini e picciosi che solo un lottatore avvezzo alla morsa delle leve sul tatami può reggerli senza invocare la resa per sfinimento. E può pure, in un momento del futuro, raccontarli. Perché lotta e scrittura, durando, diventano l’una l’altra cosa. Come sapevano i cinesi delegando a uno stesso dio – Man Mo – il patrocinio di ambedue.