Q uello che davvero non capirò mai è perché Irwin Shaw non venga studiato nelle scuole. Non solo in quelle americane, dove sarebbe quantomeno logico, ma in quelle di tutto il mondo occidentale, così come si studiano (o si dovrebbero studiare) Scott Fitzgerald, Steinbeck, Hemingway.
Non capirò mai perché le cattedre di letteratura americana non dedichino corsi monografici a questo autore tanto fortunato in vita quando negletto dopo la morte, quelli nei quali in realtà gli si sarebbe dovuto tributare il maggior riconoscimento.
Ma lo spiega bene Mario Fortunato nella introduzione alla nuova edizione di ‘Il ricco e il povero’, pubblicata da Bompiani esattamente trent’anni dopo il tascabile del 1990 che aveva ancora il titolo ‘Povero Ricco’ e seguiva di 19 anni la prima edizione italiana, sempre di Bompiani.
Sono una sorta di cultore di questo romanzo: tra le varie edizioni ne possiedo una quinta in inglese pubblicata nel novembre del 1970 a New York da Delacorte. Considerando il titolo originale – Rich Man, Poor Man – comprendo la difficoltà che deve aver avuto Bompiani a trovarne una traduzione che non suonasse troppo simile a quello di una fiaba. Un po’ come accaduto nel 1937 a Cesare Pavese con ‘Uomini e Topi’ di Steinbeck.
Ma si parlava della spiegazione data da Mario Fortunato alla damnatio memorie subita da Irwin Shaw. Nell’introduzione al volume appena tornato in libreria (24 euro, 847 pagine) viene ipotizzato che la ‘sfortuna’ di Shaw sia stata pubblicare in un momento in cui “soprattutto in Europa, infuriavano gli strutturalismi e sperimentalismi di vario ordine e grado, e chi metteva in pista ‘un romanzo di struttura classica, con personaggi e situazioni a tutto tondo’ veniva guardato nelle Accademie con sospetto e degnazione, per non dire altro”. La definizione di ‘romanzo a tutto tondo’ era di Daniele Del Giudice, colui che nel 1971 aveva portato Shaw e il suo romanzo in Italia.
Per dire quanto strano sia stato il suo destino letterario – non ‘artistico’ perché, come giustamente osserva Fortunato, Shaw è stato un artigiano prima che un artista – basti pensare che da quest’opera fu tratta una serie tv di enorme successo con Nick Nolte (in Italia fu trasmessa con il titolo ‘Il sogno americano della famiglia Jordache’) e che da un’altra sua grande opera, ‘I Giovani Leoni’ del 1948, un film con Marlon Brando e Montgomery Clift. Che fu accusato dai maccartisti di essere un comunista (solo perché era figlio di ebrei russi); di essere un machista (e #metoo era anni luce di là da venire); di avere una scrittura sciatta e di un’altra serie di fantasiosi addebiti che negli anni dopo la sua morte si sono depositati sulla sua memoria come un sudario.
Ma il motivo per cui è giusto riscoprire, ripubblicare e leggere (o rileggere) Irwin Shaw è che pochi autori come lui – a eccezione di Steinbeck – hanno saputo ritrarre l’America andando oltre gli stratagemmi psicoanalitici e autoassolutori di certa letteratura statunitense dell’oggi e tenendo fede al patto con il lettore come non è più successo a nessuna delle grandi promesse non mantenute, da Bret Easton Ellis a David Leavitt.
Del resto autori solidi come Jay McInerney e Paul Auster e, più di recente, Jonathan Franzen, ma anche ed emergenti come Claire Lombardo devono alla scrittura “oggettiva, rapida e priva di estetismi” (per citare ancora Fortunato) di Shaw più di quanto forse sarebbero disposti ad ammettere.
Per scoprirlo non resta che immergersi (o reimmergersi) nella nuova edizione dell’epopea di Rudolph, Gretchen e Thomas Jordache, nei loro “matrimoni, delitti, grandi fortune economiche, carriere fulminanti e fulminanti tragedie private” che “si susseguono, pagina dopo pagina, secondo quel ritmo incessante e irrevocabile che, se non appartiene alla Storia maiuscola o minuscola, appartiene di sicuro al romanzo – al grande romanzo dell’Occidente”.