“Chi sostiene che le serie come “Gomorra” o “Suburra” incitino all’emulazione è solo alla ricerca di un comodo alibi. Anziché ricorrere a un moralismo che odora di pericolosa censura bisognerebbe cercare le cause profonde della criminalità”.
Giancarlo De Cataldo, magistrato, scrittore e sceneggiatore, all’Ischia Global Film & Music Fest, dove ha appena ricevuto il “Premio Truman Capote”, analizza con AGI il successo, la percezione e le critiche alle serie “crime". Sta lavorando alla terza stagione di “Suburra”, la serie Netflix tratta dal best seller che ha scritto con Carlo Bonini, prevista per l’autunno 2020 e informa che sarà composta di sei episodi anziché dai tradizionali otto, perché stavolta tra i produttori, accanto a Cattleya e Netflix, non ci sarà Rai Fiction: “Hanno pensato di non partecipare a questa nuova avventura”, spiega De Cataldo che sta lavorando anche a una nuova serie per una piattaforma internazionale: “Ma siamo in fase di contratto, posso solo dire che sarà una storia italiana di oggi con radici nel passato. Sulle faccende di cinema sono scaramantico”.
Non le va proprio giù che ci siano dubbi etici sulle serie che raccontano gesta criminali…
“Perché è un pregiudizio moralistico totalmente sbagliato. All’estero non ho mai sentito dire che le serie tv possano creare dei criminali. Semmai fuori dall’Italia esaltano i loro effetti collaterali positivi, il New York Times ha scritto che “Gomorra” accanto a “L’amica geniale” ha contribuito a rilanciare il turismo a Napoli".
Lei nel 2002 con il suo "Romanzo Criminale", ispirato alla storia della banda della Magliana e poi diventato film e serie ha messo il turbo al filone…
“Inaspettatamente, considerando anche quando ho dovuto faticare, all’inizio del progetto, per convincere Einaudi a pubblicarlo. Mi dicevano che gli anni Settanta non si potevano raccontare, che gli italiani erano un po’ stufi di quel periodo e che era pericoloso romanzare una storia vera cronologicamente ancora vicina. Poi, una volta letto il libro, racconta, se ne innamorarono. Abbiamo solo un modo per far passare le nostre cose, farle bene”.
Ma lei ha sentito prima la vocazione alla magistratura o alla scrittura?
“La magistratura è venuta dopo… Ho capito ad otto anni di voler diventare uno scrittore dopo aver visto al cinema, con mio zio, un film di pirati: decisi che volevo scrivere storie con quei rumori e quella fantasia. E poi sono sempre stato un onnivoro di libri, adesso ho appena finito di leggere “Il confine” di Don Winslow e l’ho trovato immenso”.
Le serie tv che la appassionano?
“Il commissario Montalbano” , “Gomorra”, “Breaking bad” a “The night of” diretta da Steven Zaillian, che è chairman del festival di Ischia. Non mi piacciono invece, chiarisce, le serie catastrofiste sugli zombie, i morti viventi…”
La sovrapposizione tra le sue due professioni le ha mai creato problemi di gestione?
“No, perché ho depositato il mio narcisismo al cinema e in tv e la mia serietà professionale nella giustizia. Non ho mai ambito a diventare famoso come magistrato. Anche i tempi delle due attività si combinano bene: penso molto alle cose da scrivere, a volte mesi, a volte anche anni e così la fase della scrittura vera e propria è veloce. E poi è anche molto variabile: dopo "Romanzo Criminale" non riuscivo a superare lo sgomento per quel successo inaspettato e sono stato cinque anni senza scrivere”.
Ha ricordato Andrea Camilleri come lo scrittore che ha traghettato il giallo dalla serie B ai piani alti della letteratura…
“È esattamente così. Camilleri è uno scrittore che ha usato il giallo come grimaldello per penetrare nelle nostre coscienze. E io gli devo molto, anche perché mi ha molto aiutato e incoraggiato ai tempi dell'uscita di "Romanzo criminale". Ora sto lavorando a un giallo storico, ambientato nella Repubblica romana del 1849, per i 90 anni del Giallo Mondadori”.
Nel suo ultimo romanzo, “Alba nera” per la prima volta ha voluto una commissaria donna.
“È anche affetta da un disturbo della personalità e indaga su hater e uomini che odiano la sfera femminile. E’ un personaggio che avevo già utilizzato in “Sbirre” un’antologia scritta con Maurizio De Giovanni e Massimo Carlotto. Mi era piaciuta molto perché da sociopatica sa leggere bene l’odio e sa combatterlo. Il romanzo è un mio omaggio alla forza delle donne in questo periodo storico in cui i maschi frustrati e spaventati da loro, spesso si trasformano in odiatori. Io ho chiesto pubblicamente scusa a Carole Rackete da maschio bianco occidentale, per la campagna sessista che si è scatenata contro di lei, appena approdata a Lampedusa. Quella campagna mi ha ferito profondamente. Ci sarà giustamente un processo che la giudicherà ma Rackete è due volte sacra, come donna e come imputata. Esiste una sacralità del corpo dell’imputato che non è stata rispettata, come nel caso Cucchi: la sua morte ci ha colpito in modo indelebile anche perché quel ragazzo era nelle mani dello Stato…”.
Lei come si comporta con gli haters?
“Mi hanno portato da poco ad abbandonare i social, ora sono fuori da tutto. Ero rimasto su Twitter perché mi sembrava un luogo più civile ma ho dovuto ricredermi. Nei social c’è qualcosa di perverso”.