In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell'anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l'intervento di Giuseppe Patota, linguista, professore ordinario di Storia della lingua italiana presso l'Università degli Studi di Siena.
La fitta lista delle voci generate o rigenerate da ciò che accadde nel ‘68 riguarda in primo luogo – come ha segnalato Leonardo Rossi in un suo bel libro – la politica, territorio variegato in cui trovarono spazio non solo forme d’incontro e militanza paragonabili a quelle tradizionali, come il sit-in, la manifestazione (termine già attestato nell’Ottocento) e l’assemblea di fabbrica, ma anche esperienze inedite come il collettivo (un sovietismo), la comune (una parola ottocentesca tornata in auge in seguito all’esperienza delle comuni maoiste), l’occupazione, l’autogestione e, ahimé, la lotta armata.
Nacquero anche nuove forme di comunicazione politica: non solo il comizio (o il discorso parlamentare), ma anche il volantino, il tazebao (o dazebao: parola cinese che indicava il ‘manifesto murale’) e soprattutto lo slogan, in cui a lungo si esercitò “la fantasia al potere”. Caratteristica comune a tutte queste forme di comunicazione fu il desiderio di differenziarsi da quello che di lì a qualche anno sarebbe stato qualificato come l’oscuro “politichese”. Come è noto, le nuove galassie politiche contrapposte alle rappresentanze ufficiali della sinistra furono genericamente indicate come sinistra extraparlamentare. Richiamandoci a questa espressione, potremmo qualificare la lingua di queste esperienze come un italiano extraparlamentare, varietà che influenzò molto anche il linguaggio politico tradizionale, prima di tutto con l’ampliamento dei suoi più tipici procedimenti di composizione e derivazione: spuntarono come funghi verbi terminanti in -izzare (da ghettizzare a gambizzare) e nomi e aggettivi terminanti in -ismo e in -ista: assemblearismo, movimentista, neocapitalista e, ahimé, brigatista.
Roma, occupazione facoltà di Magistero, 12 febbraio. Carlo Riccardi/ Archivio Riccardi
Un grande impulso ebbero poi i suffissati in -aro e -arolo, di provenienza romana: gruppettaro, rockettaro, bombarolo e così via. Proliferarono le sigle di partiti, movimenti e sindacati: a sinistra e a destra della CGIL, della FIOM e del PCI nacquero LC (cioè Lotta Continua), Potop (Potere operaio) e CL, cioè “Comunione e Liberazione”, il contrario di LC, linguisticamente e politicamente. Da queste sigle ebbero origine decine di derivati: ricorderemo il figicciotto (il ragazzo iscritto alla FGCI) e il ciellino (il militante di CL), affiancandovi, doverosamente, i derivati dalla data fatidica: sessantottino, sessantottesco, sessantottismo e sessantottista.
Fiorirono locuzioni che in seguito avrebbero popolato quello che Ornella Castellani Pollidori definì “l’italiano di plastica”: i vari a monte, a valle, al limite, oggettivo e oggettivamente, fare chiarezza, portare avanti, contraddizioni e così via. Eppure, agli inizi dell’esperienza sessantottina, queste parole avevano suscitato una sana reazione di ripulsa da parte degli studenti, capaci di scrivere su una lavagna della facoltà di Architettura occupata a Roma: “I signori oratori si astengano dal pronunciare le seguenti parole: a livello, strumentalizzazione, al limite, demistificazione, documento, sensibilizzazione, discorso, momento, nelle strutture, non a caso, nella misura in cui”.
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