In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell'anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l'intervento di Vincenzo Vita, giornalista e politico.
Il Sessantotto non è una ricorrenza o un anniversario. Se è per questo, infatti, lo è già stato, almeno quattro volte. E’ vero che cinquant’anni fanno una cifra tonda, ma l’occasione che celebriamo ha in sé qualcosa di più e di diverso.
Se da un lato, infatti, il generale clima culturale sembra collocarsi all’opposto della temperie di quella stagione, neppure si può escludere che qualcosa di simile stia incubando. Il cielo grigio del pensiero omologato o del mainstream dominante sembra non reggere: gli squarci si intravvedono, eccome.
Già la politica ha avuto i suoi sconvolgimenti, ma si avverte – sotto la superficie dei segni - una traccia di complessiva e profonda metamorfosi. Del resto, la storia procede per salti e quando meno te l’aspetti la rottura si appalesa. La disaffezione verso la sfera pubblica e l’amarezza diffusa di cui ci parla il Rapporto del Censis evocano cambiamenti radicali.
Parigi, giovani donne sfilano durante la manifestazione del Labour Day organizzata dalla CGT e dal Partito Comunista, 1 maggio. (foto AFP)
In fondo, il ’68 nacque proprio come contestazione dell’ordine culturale costituito, prima ancora che come movimento della e nella politica. Lunga fu l’incubazione lungo un decennio ricco di presagi e di contenuti “eversivi”: i mitici anni Sessanta. E poi, dal ’66 (e sì, il ’68 iniziò almeno due anni prima) presero il via le sequenze di lotte, occupazioni, iniziative che cambiarono il corso delle cose.
Nulla rimase come prima. Ecco il punto essenziale. Nella seconda metà dei ’70 già la parabola fu discendente e tuttavia lo spirito del periodo “caldo” permeò per vari lustri usi, modelli, consumi di una società che cominciò a laicizzarsi, a riscoprire l’intelletto generale. Statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, decreti delegati nella scuola, equo canone, abolizione dei manicomi con Basaglia, legge Gozzini sulle carceri, riforma della Rai non ci sarebbero stati senza quella rivoluzione un po’ operaia e un po’ borghese. Solo il femminismo, e non a caso, ha avuto sempre specificità e autonomia.
Il ’68, dunque, è una metafora del sogno che si avvera, dell’utopia che fa capolino nella realtà, del gusto di riappropriarsi di teorie che oltrepassino la quotidianità. Non c’è “retrotopia” in queste considerazioni, bensì l’esigenza di riabilitare un passaggio glorioso: non una scadenza rituale; o persino agiografica, ora che il ricordo è sbiadito dal tempo e non mette paura all’eterno benpensante.
E’ importante raccontare la cronaca che diviene storia – come vuole la mostra - attraverso le immagini. La fotografia e i documenti audiovisivi ci costringono alla verità, che le parole scritte possono eludere, aggirare o addolcire. Un momento tanto cruciale si coglie non solo per tabulas, ma pure attraverso le espressioni del volto, i vestiti, le capigliature, la gestualità dei corpi. E si vede qualcosa in profonda trasformazione, determinato a sovvertire un vecchio ordine. Un mutante. In Italia e nel mondo, perché quello fu il primo caso di effettiva globalizzazione. Le pantere nere e Martin Luther King insegnavano ai bianchi che l’aria serena dell’Ovest era scossa e attraversata da fiumi carsici. Belli e possibili.
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