In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell'anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l'intervento di Paolo Pombeni, storico e politologo.
Quando una data diventa simbolica e viene interpretata come un tornante in qualche modo storico significa ovviamente che ha lasciato qualcosa. Certo non si può ridurre tutto alla nostalgia dei vent’anni o giù di lì dei protagonisti che ora hanno sulle spalle cinquant’anni in più e che non possono dimenticare una stagione che li aveva visti protagonisti e, come si suole dire, sbattuti in prima pagina su giornali e telegiornali.
Il fatto è che il ’68 non può essere considerato un evento unitario. Ce ne sono stati molti, a seconda dei diversi contesti geografici, culturali, sociali, economici. Li ha uniti la concentrazione temporale più o meno in quell’anno e il fatto che ognuno di essi non poteva fare a meno di riferirsi agli altri.
Essendoci stati molti ’68, molte sono le cose rimaste, anche se non è sempre semplice cogliere le continuità. Allora, tanto per dire, non esistevano né Internet, né i telefoni cellulari, cioè due fenomeni che oggi sono intimamente connessi con il fatto di essere giovani. Eppure allora come oggi esisteva quello che si chiama il disagio giovanile, il senso che una generazione avverte di essere sulle soglie di un mondo diverso da quello in cui avrebbero voluto educarla a vivere.
Roma, la scalinata della facoltà di Giurisprudenza della Sapienza prima della carica della Polizia, 16 marzo. Carlo Riccardi/Archivio Riccardi
Così tornano le grandi domande, che a ben vedere possono anche essere quelle che ciclicamente si ripetono nella storia, ma che diventano un problema collettivo, persino angosciante, nei momenti in cui si avverte il tramonto definitivo del mondo di ieri.
Ecco dunque cosa è rimasto del ’68: le grandi domande che in modo confuso si è posta una generazione e a cui ha dato delle prime risposte confuse.
Ci si è chiesto se aveva un senso l’autoritarismo con cui si governa una società chiedendole di non farsi domande perché chi di dovere aveva già a disposizione un prontuario di risposte. Ma se quello non serviva a niente, non è che con ciò cessasse il bisogno di avere l’autorità delle guide, che adesso chiamiamo leader perché l’inglese è la lingua della nuova koiné.
Ci si è domandato se essere uomo o donna lo si potesse inquadrare nei ruoli trasmessi dalla tradizione, ma poi si è scoperto che la loro semplice cancellazione finiva per lasciare senza ruoli. E così è stato per il problema del significato da dare al lavoro, alla partecipazione politica, alla fede religiosa, ai rapporti tra i popoli, alle capacità dei singoli e a quelle delle comunità. Tante domande che hanno avuto come risposta molte volte l’utopia, molte altre il regresso in un passato appena riverniciato con i colori fasulli del nuovo di moda.
Il fatto è che ciò che resta del ’68 è stata l’intuizione che si stava entrando in una nuova grande transizione storica che avrebbe cambiato i connotati di tutti i sistemi in cui le persone si trovano a vivere. Quell’intuizione è stata validata da quanto è accaduto nel mezzo secolo che ci separa dal quel mitico anno, ma le domande che allora scuotevano le menti delle giovani generazioni sono rimaste drammaticamente in campo, sia pure con qualche inevitabile mutamento ed evoluzione.
Quel che rimane del ’68 è la necessità e il dovere di dare finalmente una risposta stabilizzatrice e capace di progresso alle domande che furono poste allora.
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