In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell'anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l'intervento di Goffredo Fofi, giornalista, scrittore, critico letterario e cinematografico.
Il movimento del '68 non ha prodotto opere molto significative, almeno in Italia (è andata molto meglio in Francia). Il meglio della generazione fece politica, credette nella possibilità e nel dovere di “cambiare il mondo”, un po' meno in quello di “cambiare la vita” (e anche qui gli studenti francesi furono più coraggiosi). Ebbe pochi artisti a cantarlo, ma venivano dalla generazione che precedeva quella degli studenti, quella che aveva visto e sofferto la guerra. Le arti interessarono poco il nostro '68, ma il '68 interessò Morante, Pasolini, Schifano, Angeli, Raboni, Casarano, Balestrini, Volponi, i giovani Bellocchio e Bertolucci, ... e ovviamente al completo l'area dei “Quaderni piacentini”, Fortini e Fachinelli in testa anche se su opzioni divergenti, nel primo marxiste, nel secondo libertarie. Lo avevano preparato le nouvelles vagues, gli artisti che, soprattutto in cinema e in teatro, in giro per il mondo (anche nell'Europa dell'Est, e in America Latina, e in Asia) avevano rifiutato le logiche della Guerra Fredda e sostituito al “noi” obbligatorio degli schieramenti politici l'io di una generazione nuova e ambiziosa, le cui opere prepararono il terreno ai movimenti.
Venezia, opere occultate in segno di protesta alla XXXIV Biennale di Venezia, giugno. La Biennale di Venezia/ASAC
Il '68 della nostra scuola ha avuto dei padri come don Milani, ma ha avuto dei fratelli maggiori a Berkeley, e in Martin Luther King, in Malcolm X, e in Che Guevara, e nei russi del tempo di Kruscev, nella primavera di Praga, nei movimenti pacifisti giapponesi, e naturalmente in Julian Beck, Grotowski, Bene, Godard, Marker, Oshima, Brook, Pinter, Warhol, Beuys e tanti altri.
La gioventù voleva contare e arrivò a teorizzare se stessa come nuova classe sociale, rifiutando “il mito dell'età adulta” e di una maturità detestabile. In Italia furono ben pochi (e assai mediocri) i giovani che continuarono a scrivere, per esempio, e solo con il '77 (a Bologna, con Boccalone di Palandri, pubblicato non a caso dalle piccole edizioni di “L'erba voglio”) si ridette peso e valore alle arti e alla loro indipendenza dalla politica, a riconsiderare il “privato” degno di interesse, di venir cantato. Il predominio della politica e del conformismo della tradizione nei modi di pensarla (nei gruppi che divisero il '68 tornando malamente agli antichi modelli di organizzazione) soffocò nei giovani migliori la tentazione dell'arte, c'era qualcosa di più importante da fare - essi generosamente e spavaldamente e ingenuamente pensarono - che era la rivoluzione. Pensarono di poter cambiare il mondo rinunciando a cambiare la vita.
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