In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell'anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l'intervento di Ernesto Assante, storica firma di Repubblica.
Per il rock il 1968 inizia nel 1967, inizia quando Jim Morrison in “When the music’s over” intona una frase semplice, diretta, chiara, inequivocabile: “We want the world and we want it now”, vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso. È il primo, rumorosissimo, sampietrino che vola verso le istituzioni, verso le regole, verso la scuola e l’università, verso l’esercito e la guerra, verso la famiglia e tutto il resto. Jim Morrison rende esplicito un sentimento che covava da anni, che era cresciuto tra le strade di Londra e quelle di San Francisco, tra le università francesi e tedesche, i Doors traducono in uno slogan quello che in realtà I giovani in ogni angolo del mondo vogliono: cambiamento, rivoluzione.
Inizia il 1968 del rock, ed è un anno esplosivo come le manifestazioni nei viali di Parigi o nelle strade di Berkeley: le note di Jumpin’ Jack Flash dei Rolling Stones suonano per far cadere le mura di Gerico e tutti le ascoltano: basta con il flower power e i campanellini, è il momento di mettere a fuoco desideri e passioni e provare a puntare più in alto. Lo fanno tutti, giocando non tanto con le parole della rivoluzione, già consumate negli anni precedenti, ma con una pratica musicale che per molti versi incarna il sentimento collettivo: non più il “sogno” della rivoluzione, ma la “pratica” della rivoluzione.
New York, Joan Baez, cantante e attivista sociale americana, canta ad una manifestazione contro la guerra a Central Park, 3 aprile. Foto: Getty Images
Lo fa Van Morrison, con le note inafferrabili di “Astal Weeks”, lo fanno i Cream che abbandonano il blues rigoroso per dire addio con le note acide di “White room”, lo fa Janis Joplin sempre più rabbiosa e bruciante, gli Steppenwolf elettrici di “Born to be wild” o Jimi Hendrix che stravolge il Dylan di “All alone the watchtower” e si muove nelle strade della sua “Electric Ladyland”.
Il 1968 del rock non è più il caleidoscopio psichedelico del 1967, ma l’anno in cui cantare le lodi dei combattenti di strada in “Street Fighting Man”, o presentarsi come il diavolo in “Sympathy for the Devil”, l’anno in cui persino i Beatles tagliano a fette la realtà con “Helter Skelter” e celebrano il momento con “Revolution”.
E non basta, perché la musica è in perfetta sintonia, anzi ha aperto la strada verso il 1968 della cultura afroamericana, con i pugni chiusi di Smith e Carlos alle Olimpiadi messicane che sembrano intonare “Say it Loud, I’m Black and I’m Proud” di James Brown. E marcia con gli studenti che lottano contro la guerra del Vietnam sulle note dei Creedence Clearwater Revival.
Insomma, se c’è un modo per capire meglio il 1968 è tra queste note, quelle travolgenti degli Who di Magic Bus, quelle dei Velvet Underground di White Light / White Heat, ma anche quelle cariche di emozione, di sentimento e di passione di “While my guitar gently weeps” dei Beatles e di “Feelin’ alright” dei Traffic, che ci raccontano un anno fatto di gioia e rivoluzione.
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