In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell'anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l'intervento di Carlo Verdelli, giornalista, già direttore di Vanity Fair e della Gazzetta dello Sport.
L’anno che ha terremotato il mondo, in Italia è cominciato con un terremoto. Non tra i più devastanti del secolo (Messina contò 82 mila vittime, l’Irpinia 2.735), ma forse tra i più sventurati. Persino il numero dei morti non è mai stato stabilito con precisione (da 296 a 400 o più) né quello degli sfollati (da 50 a 90 mila). Anche il nome con cui è stato consegnato alla storia è sbagliato. Tutti dicono il “Belice”, accento sulla prima “e”. Ma il fiume che attraversa quella porzione di Sicilia occidentale è il Belìce, accento sulla “i”, solo che i giornalisti venuti dal continente per raccontare la tragedia sbagliarono per pigrizia l’ortografia e da allora il Belìce è diventato Bélice anche per la gente del posto, che in quelle 30 ore di terrore dal 14 e il 15 gennaio persero il pochissimo che avevano e pure il suono autentico del nome della loro valle.
Riguardando le immagini in bianco e nero dei 21 paesi sbriciolati, da Gibellina a Salaparuta, si vedono quasi solo donne, vecchi e bambini, e nessuno che piange, come fossero tutti già anestetizzati alle miserie del dolore. I maschi adulti se ne erano andati da un pezzo, emigranti ovunque. L’onda lunga del boom economico si era prosciugata ben prima di lambire quel tovagliolo di terre polverose e casette tirate su con blocchetti di tufo e calce magra, dimenticato tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo: la suola della punta dello Stivale. E proprio nella suola si apre pure un buco, 345 scosse, la più forte di magnitudo 6.4, un botto che si sente fino a Pantelleria. Quando cala la polvere e si spengono i lamenti dei feriti, arrivano il presidente della Repubblica Saragat e il ministro degli Interni Taviani. Una prece e via. Biglietti ferroviari gratis a chiunque e passaporti rilasciati a vista per incoraggiare le partenze. Chi resta è perduto.
Il Paese che si prepara alla fiera dei sogni sessantottini viene sbattuto davanti a uno specchio che gli ricorda le ferite rimosse del dopoguerra, e rapidamente distoglie lo sguardo. Il 27 febbraio, a tempo di record, un “superdecreto” legge stanzia 242 miliardi di lire per le zone colpite. Alla fine della storia, i miliardi diventeranno 13 mila, quanto basterebbe a trasformare il sopravvissuto Belice in un’Arcadia. Non andrà così.
A parte il lunare tentativo di trasformare Gibellina in una specie di avanguardia della “land-art”, con il Cretto di Burri steso come abnorme sudario a coprire le macerie, tutto il resto ricomincia con baracche di ventura in legno, lamiera, eternit. Leonardo Sciascia, che le visitò: “Somigliano ai più abbietti campi di concentramento”. Dieci anni dopo il disastro, ci abitano ancora 47 mila disgraziati. Le ultime 250 baracche “temporanee” vengono smantellate, non senza vergogna, nel 2006, 38 anni dopo. Nel frattempo la grande strada che avrebbe dovuto ricucire la valle, l’”Asse del Belice”, inaugurata con fasti e trombette, si è fermata in aperta campagna e da lì non si è più mossa di un millimetro. Peggio del terremoto, c’è solo il dopo terremoto.
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