C i illudiamo di poter fuggire. Siamo tentati dal cercare riparo in un luogo remoto in cui nessuno – ma soprattutto niente – possa venire a stanarci. Ma è, appunto, un’illusione. Perché la vita, se non addirittura la Storia, finisce sempre per fare capolino.
E a volte sono entrambe a farlo, sorprendendoci e obbligandoci a delle scelte. Ed è in quel momento che si distingue l’uomo dal gambero, per parafrasare una delle più belle definizioni ricorrenti in ‘Il bambino del treno’, secondo romanzo di Paolo Casadio (edizioni Piemme, 240 pagine, 17,50 euro).
Dopo ‘La quarta estate’ l’autore ravennate torna a un’epoca che pare gli sia congeniale: quella che non va oltre la Seconda Guerra Mondiale e che è abile a descrivere con dettagli che non hanno mai il sapore polveroso della pedanteria, ma sempre quello dolce del ricordo.
Piccoli oggetti, nomi, marche, che appartengono ai nostri genitori o ai nostri nonni e che suonano familiari come se si fossero sedimentati in un angolo della nostra coscienza, pronti a tornare a turbinare per farci sollevare lo sguardo dalle pagine, in cerca di quella memoria remota.
Ed è soprattutto questo ‘Il bambino del treno’: un romanzo fatto di piccole cose, piccoli gesti, luoghi che, ritratti nella vastità dell’appennino tosco-emiliano, appaiono piccolissimi. Posti, gesti, persone, perfetti per fuggire al disastro non ancora imminente, ma che i due protagonisti – un giovane ferroviere e la bellissima moglie incinta – intuiscono inevitabile.
E’ il 1935, la storia si dipana lungo quasi dieci anni che cambiano il destino dell’Italia: un cambiamento al quale Giovannino e Lucia cercano di sfuggire, accogliendo il trasferimento nella minuscola stazione di Fornello non come un esilio, ma come l’occasione per sottrarsi all’avanzata della Storia.
Casadio è abilissimo a raccontare la quotidianità di una famiglia ordinaria immergendola in una sequenza di fatti straordinari, che è solo apparentemente un’eco lontana, ma in realtà il rombo del temporale che si avvicina.
Con una narrazione dolce, delicata, intensa, l’autore riesce a tessere una trama in cui non saranno gli eventi a portare i protagonisti all’appuntamento con le scelte decisive, ma i loro caratteri, il loro approccio alla vita.
Così le improvvise inquietudini di Lucia, nata cittadina ma rassegnata e poi conquistata dalla valle del Muggione; le malinconie di Giovannino cui il giovane capostazione cerca di sfuggire solo perché non riesce a spiegarsele, e l’intraprendenza del piccolo Romeo sono il vero motore che spinge non soltanto il racconto, ma la scoperta di personaggi intimamente vicini a noi, al desiderio di oblio che talvolta ci prende e al disperato tentativo di ignorare l’appuntamento con l’inevitabile.
‘Il bambino del treno’ è un romanzo bellissimo, le cui pagine conquistano una dopo l’altra, senza quasi riuscire a metterlo giù finché il tragico destino cui si accenna fin dall‘inizio non è compiuto. E quando la Storia incrocia la quotidianità della famiglia Tini, lo fa come spesso fa la Storia: invitando il ‘cuore gambero’ a non arretrare, per una volta. Per poi andare avanti lo stesso, travolgente, ignorando nel suo compiersi i gesti di eroismo. Grandi o piccoli che siano.