B runico - Ogni luogo ha un suo momento magico. Un attimo che lo rende straordinario pur nella sua ordinarietà e poetico nella sua prosaicità. Può essere il mattino nella foresta boliviana, prima che il sole diventi feroce, o l’alba in una periferia metropolitana, prima che la luce si proietti spietata sul degrado. Sono attimi di cui l’occhio spesso non ha percezione, che arrivano direttamente al cuore quasi senza passare per le sinapsi cerebrali, attivando quelle reazioni involontarie che immalinconiscono l’anima, come l’immagine fugace di un ricordo perduto.
Poi ci sono quei luoghi che magici lo sono per definizione. Luoghi fisici e reali, come le meraviglie che si aprono dietro ogni vicolo del cuore di Roma, o immateriali, come l’immaginario creato dal cinema o i ricordi di infanzia che si cristallizzano intorno a un tavolo, in uno sguardo o in una postura.
Quando il momento magico e il luogo magico si incontrano, allora si innesca quel miracolo al quale qualcuno ha dato il nome di Sindrome di Stendhal quasi fosse una malattia del corpo invece che un incanto dell’anima. La magnificenza di certi luoghi è stata pensata per sorprendere, per lasciare letteralmente a bocca aperta; la cura di alcune opere è stata voluta per riempire ogni angolo del campo visivo di chi la ammira e non lasciare spazio ad altro se non all’arte nella sua totale purezza. Ma tutti – luoghi e opere, edifici e monumenti, architetture e sculture – devono sottomettersi alla ingovernabilità della luce che li ammanta ogni giorno, ogni ora, ogni istante di una veste diversa e, appunto, imprevedibile. E’ cogliendo le forme sotto le pieghe di questa veste che si rigenera l’incanto, sempre diverso in intensità e profondità, di un luogo che è magico in sé e nel contempo di una magia acquisita per l’appunto da quella luce che è fatta di infrarossi e ultravioletti, ma anche di pulviscolo, di riflesso, di densità dell’aria.
Quella stessa densità che Luigi Civerchia, le cui opere sono in questi giorni in mostra alla Seebockhaus di Brunico, Alto Adige, ha reso protagonista della sua pittura. Le sue vedute romane, i suoi scorci monumentali, persino i suoi ritratti e le nature morte sono filtrati attraverso questa densità che li rende unici, come unico è il punto di vista di chi guarda senza limitarsi a vedere. Soffermandosi sulle Naiadi della fontana di piazza Esedra o sul Giordano Bruno di Campo de’ Fiori, Civerchia non ci restituisce un’immagine fedele all’immagine, quanto piuttosto all’immaginario. Al suo personalissimo, incantato e sublime immaginario che attinge a una Roma senza tempo in cui persino lo spazio perde importanza e consistenza per abdicare interamente alla luce. Una luce che – ora sì – attraverso il filtro dell’anima dell’artista, restituisce a chi guarda una visione prima ancora che una immagine. Nei rossi, nei blu e nei verdi delle sue vedute, nelle sovrapposizioni delle immagini felliniane, nel senso di attesa che sembra trapelare dalle sue nature morte, il pittore romano ci restituisce non una interpretazione della realtà, ma il suo vissuto, là dove questa parola racchiude non solo l’esperienza di un uomo che è stato letteralmente testimone e interprete dell’arte italiana del Novecento, ma il modo in cui questa si è sedimentata nella sua anima. E ce la restituisce: magica e splendida; incantata ed emozionante. (AGI)