di Nicola Graziani
Roma - Come spesso capita quando si tratta di arte antica, era gia' stato scritto tutto secoli fa. Il dare scandalo di quelle sculture e' infatti storia molto vecchia: troppo nude, troppe belle, e quindi - ohibo' - potenzialmente pericolose in quanto in grado di suscitare pensieri e desideri, soprattutto quando si deve stare attenti a non averne. Ma la collezione di statue antiche dei Musei Capitolini, addirittura, e' divenuta quella che e' ora - una delle piu' importanti del mondo - proprio a causa dei pensieri che quelle cinquanta sfumature di bianco suggerivano, luciferinamente suadenti. Pensieri peccaminosi: non solo nei confronti della carne, ma soprattutto della mente e del cuore, e questo rendeva la cosa se possibile ancor piu' pericolosa, nei tempi che seguirono il Concilio di Trento.
La collezione capitolina, va detto a onore di chi la istitui', e' la prima collezione pubblica del mondo. La penso' sul finire del Quattrocento non un sovrano illuminato, ma un papa umanista come Sisto IV Della Rovere, cui si deve anche la creazione della Biblioteca Apostolica. Ma il Della Rovere era anche politico, e se regalo' al Comune di Roma lo Spinario e la Lupa di Vulca lo fece anche per ribadire che in Citta' comandava lui, e alle istituzioni comunali poteva arrivare anche l'eccelso, ma solo per graziosa concessione del pontefice. Il quale, comunque, il meglio lo temeva quasi tutto per se', esposto agli occhi del Platina e dei suoi amici umanisti nello spazio che avrebbe visto di li' a poco l'erigendo Cortile del Belvedere in Vaticano.
Il grosso delle statue arrivo' sul Campidoglio un centinaio d'anni piu' tardi. Era il 1566, due anni dopo la fine del Concilio Tridentino, e a Roma si iniziavano a impastare il grigio e il marrone per mettere le braghe al Giudizio Universale. Regnava Pio V Ghislieri: uomo probo, severissimo con se stesso quanto inflessibile con gli altri. Era arrivato al Soglio dopo aver sovrinteso all'Inquisizione e a furia di scorrere l'elenco dei libri messi all'indice. Sapeva che il peccato della carne svia, ma quello della mente inchioda alla perdizione. Ecco, allora, che non una, ma decine di statue romane finite negli anni al Belvedere costituivano una doppia minaccia. Al corpo, con le loro nudita', alla mente con il loro suggerire il ritorno ad un passato pagano, o almeno al quasi altrettanto aborrito platonismo. Dottrina, quest'ultima, in gran voga tra gli erasmiani e in tutta l'ala della Chiesa uscita sconfitta da Trento.
Alle corte: le statue davano scandalo al pontefice romano, che di fronte a esse era costretto a passare almeno un paio di volte al giorno. Andavano rimosse. Venne stilato il catalogo della collezione e fatta una cernita. Alla fine vennero epurate in 150, caricate su carri trainati da buoi e spedite al Comune di Roma, a tenere compagnia allo Spinario e alla Lupa. In Vaticano non sono state piu' riammesse. Centocinquanta sfumature di bianco, per l'appunto, che da allora troneggiano nelle sale del Comune di Roma, a lasciare a bocca aperta decine di migliaia di visitatori all'anno. Grazie alla loro nuda bellezza. (AGI)