Il male che le mafie fanno alla società lo viviamo tutti i giorni; quello che fanno all'ambiente lo vediamo, lo respiriamo e spesso lo mangiamo. Quello che fanno agli animali ce lo raccontano i 26 fascicoli che giorno vengono aperti per violenze, uccisioni e massacri. Uno ogni 55 minuti, un indagato ogni ora e mezzo.
È quanto emerge dal Rapporto Zoomafia del 2018, presentato a Roma e giunto alla diciannovesima edizione. L’edizione di quest’anno ha una importante novità, ovvero il patrocinio del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e della Fondazione Antonino Caponnetto.
Quello che chiaramente emerge non è altro che il “male umano”: violenze uccisioni, massacri degli uomini a danno di altre specie, cioè gli animali.
Il vero affare per la criminalità, comune ed organizzata, è quello dei combattimenti fra animali che a migliaia muoiono ogni anno.
Chi sono i zoomafiosi
Si tratta di un fenomeno complesso che coinvolge soggetti diversi: i casi più diffusi fanno capo a delinquenti locali, teppisti di periferia, sbandati, allevatori abusivi e trafficanti di cani cosiddetti “da presa”. Non mancano però casi riconducibili alla classica criminalità organizzata: esiti giudiziari hanno accertato il coinvolgimento di elementi appartenenti alla camorra, alla sacra corona unita, al clan Giostra di Messina e ad alcune ‘ndrine.
Alcune cifre, per cristallizzare il fenomeno, mostrano fascicoli aperti nel 2017 per uccisione di animali con 2.633 procedimenti, pari al 30,91%, e 572 indagati; rispetto al 2016 i procedimenti sono aumentanti del +1,72%. O ancora, abbandono e detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura, con 1250 procedimenti, pari al 14,67%, e 1120 indagati; uccisione di animali altrui, con 411 procedimenti, pari al 4,82%, e 161 indagati.
Fra questi numeri – che sono solo una minima parte di quelli contenuti nel Rapporto, il maggior numero di indagati è per il reato di maltrattamento di animali: 1.951, pari al 36,74% del totale (5.310).
Le corse clandestine
Altro aspetto che salta all’occhio è quello della forte presenza criminale nel mondo dei cavalli, delle corse e degli ippodromi. La conferma arriva da recenti inchieste che hanno rivelato l’interesse di alcuni sodalizi mafiosi per le corse illegali di cavalli. I numeri relativi alle corse clandestine e alle illegalità nell’ippica parlano da soli. Solo nel 2017: 15 interventi delle forze dell’ordine, 6 corse clandestine bloccate, 82 persone denunciate, di cui 61 persone arrestate, 20 cavalli sequestrati. In 20 anni, da quando abbiamo iniziato a raccogliere i dati per il Rapporto Zoomafia, ovvero dal 1998 al 2017 compreso, sono state denunciate 3484 persone, 1295 cavalli sequestrati e 122 corse e gare clandestine bloccate.
In alcune zone, il linguaggio mafioso si confonde con quello dei “cavallari”.
Recenti inchieste hanno confermato l’interesse di alcuni sodalizi mafiosi per le corse clandestine di cavalli, in particolare il clan Giostra di Messina, i Santapaola di Catania, i Marotta della Campania. A questi vanno aggiunti i Casalesi del Casertano; il clan Spartà e i “Mazzaroti” della provincia di Messina; i Parisi di Bari; i Piacenti-“Ceusi” di Catania; i “ Ti Mangiu” di Reggio Calabria.
Nomen omen
Nota di colore, che fa comprendere l’interesse nel settore, sta nel nome dei cavalli che corrono clandestinamente sulle strade. È a loro che vengono dati nomi di battaglia che vanno da quelli dei boss Totò Riina, Provenzano detto Binnu u’ Tratturi, e Carmine Schiavone, detto ‘o Malese, sino a Bin Laden e Puparo.
Per questi “campioni” vengono scritte poesie e canzoni neomelodiche che accompagnano i video delle corse, diffusissimi sui social. “Corri cavallo, corri più forte, sorpassi tutti e non ti preoccupare, che tutti sanno che sei un campione: sopra questa strada tu sembri un leone!”: sono i versi di una canzone cantata in siciliano usata come colonna sonora del video di una corsa clandestina di cavalli, “Puparo vs Vecchio”, pubblicato su una pagina Facebook dedicata alle corse clandestine di cavalli.
Video e colonne sonore
La presenza di canzoni, di musica, di spettacolarizzazione, attesta che siamo di fronte non solo a fatti criminali, ma a una “cultura criminale”, molto radicata in determinati contesti, che si nutre di consensi e simpatie popolari. Non si tratta solo di tradizioni legate al cavallo, ma di cosciente partecipazione a condotte illegali, dell’aperta adesione ad attività delinquenziali e ai valori da esse espressi. Non bastano i blitz e i sequestri (necessari e sempre troppo pochi) per debellare una “cultura criminale”.
Non si tratta di reprimere un mero caso criminoso, un determinato atto delinquenziale, ma di contrastare il substrato culturale che determina, favorisce e nutre tali crimini. Per questo occorre un agire sinergico, comprensivo sì dell’azione repressiva, ma fatto anche di valori, di cultura della legalità e del rispetto, di riscatto sociale. La lezione dovrebbe essere nota: la mafia si annida e cresce laddove ci sono condizioni sociali che lo consentono e non si fa nulla per cambiarle. La subcultura criminale che caratterizza questo tipo di corse si evince anche dai commenti e dalle foto pubblicate sul web.
La testa di cavallo, come nel Padrino
Infine, un altro importante aspetto sempre legato alle mafie, è quello che mette in risalto la funzione intimidatoria degli animali. È uno dei ruoli che gli animali svolgono nel sistema e nella cultura mafiosa. L’uso di animali come arma o come “oggetti” per intimidire è molto diffuso, di difficile catalogazione e rappresenta un fenomeno che non si può facilmente prevenire.
Il recapitare parti di animali rappresenta l’1,65% delle modalità di intimidazione e minacce: teste mozzate di cinghiali e capretti, gatti morti, uccelli decapitati: alcuni degli atti intimidatori accertati l’anno scorso. “A volte la minaccia si trasforma in uccisione degli animali domestici – è il commento di Ciro Troiano, responsabile della Lav -: un modo non solo per intimorire, ma per colpire negli affetti più cari”.