Roma - "Il femminicidio ha la stessa valenza culturale, sociale e criminale della mafia. Si deve pretendere dallo Stato lo sforzo dimostrato nel combattere il fenomeno mafioso perché il femminicidio, inteso in senso ampio, arriva ad ammazzare, nel disinteresse assoluto, più della mafia, uccide la vita e la dignità di intere generazioni, rendendole succubi e incapaci di reagire". Paola Di Nicola, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, si dice convinta, conversando con l'Agi, delle forti analogie tra i due fenomeni, ma denuncia la mancanza di quel "salto di qualità" che deve compiere il Paese per debellare i reati di violenza contro le donne. "Se venisse ammazzato ogni giorno un testimone di giustizia, un pentito, lo Stato alzerebbe immediatamente la guardia, come è doveroso che sia, mentre un giorno sì e uno no viene uccisa una donna e il fenomeno appare normale, è accettato, metabolizzato, ci appartiene, è ineluttabile", prosegue la gip impegnata da anni nel contrasto alla violenza di genere e autrice del libro "La Giudice - Una donna in magistratura".
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Contesto di omertà e rifiuto identico a quello mafioso
Riguardo al fenomeno, "non c'è ancora una coscienza culturale, sociale e politica. La donna vittima di violenze si trova in un contesto di omertà, rifiuto, negazione identico a quello di mafia, ma è sostanzialmente sola". Per scoprire davvero gli autori dei femminicidi, ma anche di tutti i reati contro le donne, per Paola Di Nicola "si devono leggere gli episodi in un'ottica complessiva e con una visione di genere, altrimenti il fenomeno criminale resterà impunito e diventerà tanto diffuso quanto inattaccabile. Come per la mafia, esistono, infatti, i reati-spia, cioè quelli che costituiscono un univoco indicatore di una violenza più pericolosa e più insidiosa, di una quasi certa escalation. Sono le lesioni, i maltrattamenti nelle famiglie e nei contesti lavorativi, le molestie, l'omesso versamento dell'assegno di mantenimento come ricatto economico e come assenza di riconoscimento della figura genitoriale dell'altro, gli insulti sessisti.
Il 70% delle vittime aveva denunciato l'aggressore
Un dato significativo è che il 70% delle donne vittime dei femminicidi aveva già denunciato il proprio aggressore: questo perché troppe volte gli accadimenti vengono valutati in modo isolato, parcellizzato. Come le estorsioni in un contesto mafioso anche i maltrattamenti vanno letti in maniera non episodica e parziale". Capacità culturale e "lenti di genere" - sostiene Paola Di Nicola - devono entrare nelle aule di giustizia perché persino lì "spesso si respira il pregiudizio di genere, che è radicato in tutti i protagonisti del processo, uomini e donne, e che si riproduce anche in alcune sentenze di assoluzione degli autori di lesioni, stalking, maltrattamenti". Secondo i dati Istat, sono circa 3 milioni 466 mila le donne che hanno subito stalking nella loro vita.
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"In alcune sentenze di assoluzione - spiega la gip del Tribunale di Roma - si ritiene che la donna abbia denunciato le violenze strumentalmente e, quindi, non sia credibile, salvo poi scoprire che nessuno ha offerto alcuna prova sulla strumentalità della denuncia. Nei procedimenti relativi ai reati di violenza contro le donne la valutazione di credibilità della vittima è molto spesso più ficcante, intrusiva, specifica, approfondita, accertamento che non si ritrova in nessun altro tipo di delitto. Perché c'è lo stereotipo che la donna mente, che utilizza il processo per propri fini.
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Nelle sentenze motivazioni che non convincono
Una donna vittima di violenze viene di frequente sottoposta nel processo a domande di accusa e difesa estenuanti nelle quali le si chiede di sviscerare i particolari più intimi della propria vita e del proprio modo di essere, approccio impensabile nei confronti, per esempio, della vittima di una rapina". Ma lo prevede la legge? "Assolutamente no - risponde la giudice - ci sono anche pronunce della Cassazione che reputano sufficiente la denuncia della vittima per condannare per lesioni, stalking, maltrattamenti.
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E invece molte sentenze assolvono con motivazioni che non convincono: perché manca ad esempio la certificazione medica che dimostra le lesioni oppure perché mancano testimoni. Tutti passaggi sconfessati dal fatto che gran parte dei reati che si consumano in contesti familiari non hanno testimoni - avvengono in camera da letto, in casa quando non è presente altra gente - e che la quasi totalità delle donne vittime di violenza domestica non si fa refertare le lesioni subite per paura. Talvolta in qualche sentenza si arriva addirittura a definire i lividi delle vittime come atti di autolesionismo".
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Per Paola Di Nicola, "questo è dovuto al fatto che il pregiudizio di genere appartiene a chiunque e gli stessi magistrati non ne sono estranei perché la magistratura fa parte della realtà sociale e culturale di un Paese. Anche se - riconosce - si sta creando una cultura giudiziaria sempre più avveduta e impegnata a sradicare questo tipo di pregiudizio. In questi anni la magistratura ha fatto coraggiosi e innovativi passi in avanti in questo ambito, a partire dalle Procure, pur nella consapevolezza che dentro e fuori le aule di giustizia la strada sia ancora lunga". Prima del momento conclusivo del processo c'è, infatti, tutta la fase in cui gli episodi di violenza sono in pieno svolgimento e viene richiesto l'intervento delle forze dell'ordine, dalle quali ancora oggi, non di rado, c'è "una sottovalutazione delle situazioni: ci sono casi di maltrattamenti che vengono liquidati nei verbali come 'lite coniugale'. Si trascurano poi elementi significativi come lo stato in cui era l'abitazione con piatti e bicchieri rotti per terra, mobili distrutti, coltelli lanciati o il perdurare dell'atteggiamento aggressivo dell'uomo anche alla presenza di polizia o carabinieri".
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Necessario liberarsi dai pregiudizi culturali
Per la gip del Tribunale di Roma, questo è lo stesso pregiudizio culturale che porta i vicini di casa a non segnalare episodi di violenze con la giustificazione di non voler entrare nella privacy di altre famiglie. Quegli stessi vicini di casa che farebbero esattamente il contrario davanti a un furto o a una rapina."Purtroppo prima vittima dello stesso pregiudizio, dello stesso stereotipo - continua la sua analisi - è anche la donna che subisce violenza e il suo comportamento gioca un ruolo decisivo: prima denuncia lesioni, stalking o danneggiamenti, ma poi ritira la querela - e qui gli inquirenti possono fare ben poco - per non essere accusata di aver distrutto la famiglia o nella speranza illusoria di poter recuperare un rapporto. E anche quando si giunge faticosamente al processo, è la stessa vittima che entra in un'aula di giustizia temendo, spesso a ragione, di non essere creduta, convinta di aver violato la 'regola' comune secondo la quale le donne devono tacere quello che subiscono, di essere andata contro e oltre il proprio ruolo e il proprio modello". Su questi sentimenti della donna fa leva "con astuzia l'imputato, soprattutto quando ci sono figli.
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Questo atteggiamento, assieme all'assenza della consapevolezza di commettere un reato, accomuna tutti gli autori delle violenze, di diverse classi sociali, strati professionali, contesti culturali, religiosi, da nord a sud. I carnefici, inoltre, colpiscono le donne, non solo perché a un certo punto si è alzato il livello dello scontro, ma proprio perché appartenenti al genere femminile di cui non tollerano autonomia e capacità". Come si fa a uscire da questa infernale spirale? "Soltanto acquisendo la consapevolezza del pregiudizio - conclude Paola Di Nicola - è possibile liberarsene per costruire una nuova identità capace di scuotere l'immobilismo che ci rende tutti complici di una strage silenziosa ma quotidiana".
Per approfondire:
"La giudice: una donna in magistratura"