La trattativa c'è stata. Il patto scellerato tra pezzi dello Stato e Cosa nostra è stato siglato. Questo è emerso dal duro dispositivo della Corte d'assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, pronunciato il 20 aprile 2018 nell'aula bunker del Pagliarelli al termine di oltre quattro giorni di camera di consiglio. Con questa conclusione processuale, formulata in primo grado, si deve confrontare adesso il processo d'appello che si è aperto.
Le motivazioni sono state depositate il 19 luglio dell'anno scorso, nel ventiseiesimo anniversario della strage di via D'Amelio. Dopo cinque anni di udienze, boss e politici sono stati dichiarati in primo grado colpevoli del reato di minaccia e violenza al corpo politico dello Stato. La trattativa sarebbe stata intavolata dai carabinieri fino al 1993, dall'anno successivo in poi dall'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri.
Condannati a 12 anni di carcere, oltre a Dell'Utri, i generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e il boss Antonino Cinà; a 28 anni Leoluca Bagarella, la pena più pesante. Otto anni al colonnello Giuseppe De Donno. Stessa pena per Massimo Ciancimino accusato di calunnia nei confronti dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro, mentre è stato assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Prescrizione per Giovanni Brusca. Assolto l'ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.
La trattativa accelerò "l'esecuzione" di Borsellino
Una motivazione colossale per un processo poderoso. Tra le 5252 pagine la convinzione che "l'improvvisa accelerazione che ebbe l'esecuzione del dottore Borsellino" fu determinata "dai segnali di disponibilità al dialogo - e in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci - pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D'Amelio".
Per cui, secondo i giudici di primo grado, "non vi è dubbio" che i contatti fra Mario Mori e Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, "unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l'avvicendamento di quel ministro dell'Interno che si era particolarmente speso nell'azione di contrasto alle mafie) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Riina già come forieri di sviluppi positivi per l'organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato".
Insomma, "quell'invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisce un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l'effetto dell'accelerazione dell'omicidio di Borsellino" con la finalità di approfittare "di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato". E questo è un fatto anche laddove non si volesse convergere sulla conclusione dell'accusa secondo cui "Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla trattativa".
Riina incoraggiato a mettere in ginocchio lo Stato
Secondo i giudici "quei contatti che già all'indomani della strage di Capaci importanti e conosciuti ufficiali dell'Arma avevano intrapreso attraverso Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l'avvicendamento Scotti-Mancino al ministero dell'Interno, ndr) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Riina già come forieri di sviluppi positivi per l'organizzazione mafiosa".
In altre parole "se effettivamente quei segnali pervennero a Riina nel periodo immediatamente antecedente alla strage di via D'Amelio (e che ciò effettivamente avvenne risulta provato) è logico e conducente ritenere che Riina, compiacendosi dell'effetto positivo per l'organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare, con la strage di via D'Amelio, quella straordinaria manifestazione di forza criminale per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato ed ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi fu la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili".
I Ros agevolarono il progetto di Cosa Nostra
Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, i carabinieri condannati poco più di un anno fa, agirono con "il dolo specifico di colui che abbia lo scopo di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso o che comunque abbia fatto propria tale finalità". Gli imputati, secondo la sentenza del processo stato-mafia, stimolarono "il superamento del muro contro muro e quindi l'indicazione, da parte dei vertici mafiosi, delle condizioni per tale superamento".
In questo modo, "si è inevitabilmente rappresentato il vantaggio che certamente sarebbe in ogni caso derivato per Cosa nostra nel momento in cui fosse venuta meno la contrapposizione frontale la forte azione repressiva dello Stato, già culminata nelle pesanti pene del maxiprocesso e più recentemente dopo la strage di Capaci nelle misure anche di rigore carcerario del decreto legge adottato dal governo l'8 giugno 1992".
Il ruolo di Marcello Dell'Utri "come intermediario delle minacce di Cosa nostra a Silvio Berlusconi - secondo i giudici di primo grado - non si colloca nel momento in cui quest'ultimo decise di scendere in politica, ma fu espresso dopo che fu formato e insediato il nuovo governo presieduto proprio da Berlusconi".
Dell'Utri intermediario, minacce a Berlusconi
Il riferimento sono gli incontri che Dell'Utri, condannato a 12 anni, ebbe con l'ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano "in almeno due occasioni, la prima tra giugno e luglio 1994, la seconda nel dicembre dello stesso anno, per sollecitare l'adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni".
Il collegio concordava con le argomentazioni difensive di Dell'Utri, che negano che le iniziative "fossero state effetto diretto di una minaccia", legandole piuttosto a "libere scelte di quella consistente componente di soggetti facenti parte di Forza Italia che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti governi". "Ciò pero' non toglie che ugualmente gli interventi di Mangano nei confronti di Dell'Utri possano avere avuto una obiettiva attitudine ad intimorire il destinatario finale, individuato dai mafiosi in Berlusconi, indipendentemente dal fatto che l'effetto intimidatorio, purché comunque percepibile, possa avere inciso concretamente sulla sua liberta' psichica e morale di autodeterminazione".
"Le promesse o quantomeno la disponibilità manifestata da Dell'Utri per soddisfare le esigenze di Cosa nostra hanno contribuito all'entusiastico appoggio dato da quest'ultima in Sicilia alla nascente nuova forza politica". I giudici parlavano di un ruolo di Dell'Utri "tutt'altro che neutro, perché non si sarebbe limitato ad ascoltare e a raccogliere le richieste dei mafiosi, ma avrebbe ancora manifestato disponibilità nel farsi carico delle iniziative del governo Berlusconi".
I magistrati ricordavano che "l'evento del reato contestato non è costituito dai provvedimenti legislativi poi adottati, ma esclusivamente dalla percezione da parte di Berlusconi, in qualità di capo del governo, della pressione psicologica operata da Cosa nostra col ricatto, esplicito o implicito che fosse, della reiterazione delle stragi".
In altri termini la Corte sosteneva che Dell'Utri "continuava ad informare Berlusconi di tutti i suoi contatti anche dopo l'insediamento del governo da quest'ultimo presieduto e vi è la definitiva conferma che anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che una inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere".