“Anche in Italia il sistema di early warnings è applicabile ma bisogna attendersi risultati più limitati di quelli sperimentati in Messico o Giappone: i nostri terremoti hanno magnitudo minori, sono più superficiali e vicini al tessuto urbano. Con la stessa tecnologia non ci si può aspettare di salvare altrettante vite”.
Alessandro Amato, geologo dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) dove ha anche diretto il Centro nazionale terremoti, spiega all’Agi perché in Italia il meccanismo di allerta precoce per i sismi ha meno possibilità di ridurre i danni rispetto ad altri Paesi. Negli Stati Uniti, la città di Los Angeles ha recentemente lanciato una app per smartphone che avvisa i cittadini dell’arrivo di una scossa (ne abbiamo scritto recentemente). In Giappone, gli allarmi alla popolazione vengono diffusi addirittura dai media tradizionali come la televisione.
I meccanismi di early warnings (ew) si basano sullo scarto temporale che intercorre tra l’arrivo delle prime onde, quelle P, e quelle più energetiche, quelle S, che si sprigionano dalla rottura della crosta terrestre durante un terremoto. Tra quelli italiani e molti altri, spiega Amato, c’è però una differenza sostanziale: “In California si registrano terremoti di magnitudo 7.5 o 8, eventi che rompono faglie lunghe 300-400 km. In Giappone o Cile i sismi più potenti hanno epicentro in mare e arrivano a magnitudo 9-9.5 provocando faglie di 500 o mille chilometri”.
In Italia, invece, le scosse più recenti che hanno provocato danni seri hanno avuto magnitudo inferiori: 6.3 all’Aquila, il 6 aprile 2009, 6.0 quello di Accumoli-Amatrice del 24 agosto 2016, 6.1 quello in Emilia nel maggio del 2012. Scosse che spaccano faglie più ridotte, cioè che coinvolgono un’area geografica circoscritta. “Una faglia non si rompe all’istante – prosegue Amato - la frattura si propaga alla velocità di alcuni km al secondo. Per rompere faglie come quelle in California, per esempio, trascorrono decine di secondi”.
Per questo motivo allarmi precoci, cioè in tempo reale, possono effettivamente salvare la vita delle persone: non nelle zone più vicine all’epicentro, le cosiddette blind zones ovvero zone cieche dove la scossa non lascia il tempo per diramare avvertimenti, ma nei centri abitati più distanti.
All’Aquila, nel 2009, sarebbe cambiato quasi nulla
I terremoti italiani, insomma, provocano i danni più gravi nelle immediate vicinanze dell’epicentro e il tempo che intercorre tra le onde P e quelle S è troppo ridotto per poter immaginare di ridurre gli effetti disastrosi di una scossa. Prendiamo il caso dell’Aquila: in un articolo del 2014 pubblicato su Scienza in rete, Amato illustrava gli esiti di una simulazione sui dati del terremoto e spiegava che “l’onda S, quella più energetica, era arrivata meno di 2 secondi dopo la P”.
Un lasso di tempo insufficiente a prendere qualsiasi precauzione. Discorso diverso allontanandosi dall’epicentro: a Roma, in quel caso, lo scarto fu di una quindicina di secondi, ma nella Capitale il terremoto non ebbe gravi conseguenze. In questi casi, prosegue Amato, un’eventuale allerta “in mancanza di una preparazione adeguata dei cittadini, rischia di fare più danni che altro perché risulta più pericoloso muoversi in maniera disorganizzata (imboccando le scale, ad esempio, che sono la parte più fragile degli edifici), piuttosto che non farlo proprio”.
Per alcune azioni automatizzate, cioè prive dell'intervento umano, un preavviso di pochi secondi potrebbe invece rivelarsi molto utile: "Pensate per esempio alle sale operatorie - prosegue Amato - ai macchinari industriali, agli ascensori o all’erogazione del gas". Tutte situazioni in cui un allarme precoce può ridurre eventuali danni.
Alcune esperienze di early warnings, però, ci sono anche in Italia
La rete sismica nazionale di Ingv, spiega Amato, “è composta da circa 400 stazioni in tutta Italia” ed è integrata da altre reti sviluppate da istituti come l’Ogs di Trieste o da quella dell’Università di Genova che monitora il nord-ovest della penisola. Si tratta di “postazioni dotate di sensori con un sismometro che registra il movimento del terreno” che raccolgono i segnali e li inviano alla centrale operativa dell’Ingv.
Un’operazione che richiede alcuni secondi, tra zero a dieci circa, perché l’informazione viene trasmessa via satellite, via cavo o via Internet. Una latenza che non consente a queste reti di essere adatte per un vero early warning sismico, a mano di ridurre sensibilmente questi tempi. Fattibile, ma molto costoso.
Alcuni tentativi di installare reti di allerta precoce, simili cioè a quello statunitense, però esistono: un team di ricerca dell’Università di Napoli Federico II ha avviato nel 2009 un progetto di ew in Irpinia; Ingv ne sta testando uno lungo l’Appennino tra Marche, Umbria e Toscana, in collaborazione con la stessa Federico II. Entrambi sono progetti sperimentali, di ricerca, cioè le cui segnalazioni non sono oggi utilizzate per diramare allerte.
A coordinare quello in Irpinia è Aldo Zollo, docente di sismologia, che all’Agi ha spiegato di che cosa si tratta: “Abbiamo installato 30 stazioni dislocate su un’area di circa 80 chilometri per cento, tra Benevento e Potenza, con sensori a distanza media di 20 chilometri”. La rete, controllata da remoto e alimentata da pannelli solari e centraline eoliche, è in grado di segnalare le scosse con una latenza nel giro di un secondo, cioè in vero tempo reale. Proprio come nei sistemi di early warnings internazionali. L’obiettivo, prosegue Zollo, è “studiare i limiti del sistema, validarne le metodologie e comprendere i casi di falso o mancato allarme” per valutare una possibile applicazione su base nazionale in futuro.
Tra limiti legali e applicazioni aziendali
A differenza del Giappone, dove già da una decina di anni è in vigore una legge che regolamenta l’utilizzo degli early warnings su scala nazionale, in Italia non esistono norme. Un problema non da poco, sottolinea Zollo: “A chi va attribuita la responsabilità di un falso allarme o di un mancato allarme? Poiché il segnale di allerta dev’essere diffuso mediante molteplici mezzi di comunicazione, come si definiscono le responsabilità nella catena che va dalla misura scientifica, alla decisione, alla diffusione dell’allerta e all’attuazione di misure di prevenzione?”.
Anche per questo motivo, finora, le applicazioni si contano sulle dita di una mano: una di queste riguarda Rete Ferroviaria Italiana (Rfi), la società che gestisce l’infrastruttura su cui viaggiano i treni nel nostro Paese. “Il nostro gruppo di lavoro sta lavorando a un sistema da installare sulla linea Alta Velocità Napoli-Roma composto da sensori in grado, in caso di terremoti, di attivare il rallentamento e l’arresto dei treni”.
Un sistema per certi versi simile, di quasi-early warning, c’è invece già per quanto riguarda l’intera rete ferroviaria. Lo hanno stipulato l’Ingv e Rfi: si tratta di messaggi automatici di localizzazione e magnitudo delle scosse spediti entro un paio di minuti dal terremoto. La segnalazione consente a Rfi di mettere rapidamente in atto delle precauzioni come il rallentamento dei convogli per evitare incidenti nel caso in cui si siano danneggiate le infrastrutture.