Prima un violento ceffone e una spinta che lo hanno fatto cadere all'indietro facendogli sbattere la testa per terra. Poi un calcio rimediato all'altezza dell'ano con la punta della scarpa seguito da un secondo calcio sferrato in faccia. È la rapida e drammatica sequenza del pestaggio subito da Stefano Cucchi alla caserma della compagnia Casilina dove era stato portato dai carabinieri che poco prima lo aveva arrestato per detenzione e spaccio di droga.
Nel giorno in cui il quotidiano Repubblica rende nota la lettera di vicinanza che il comandante generale dell'Arma Giovanni Nistri ha scritto alla famiglia Cucchi l'11 marzo scorso ("Crediamo nella giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di una giovane vita sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un'aula giudiziaria"), a prendere la scena, su quanto avvenne la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009, è il carabiniere Francesco Tedesco, uno dei tre militari sotto processo in corte d'assise accusati di concorso in omicidio preteritenzionale.
La testimonianza del carabiniere Tedesco
Tedesco, sentito dal pm Giovanni Musarò lo scorso anno per ben tre volte, ha confermato in dibattimento le accuse rivolte ai colleghi-coimputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro. Fu Di Bernardo il primo carabiniere, con un ceffone mollato al geometra 31enne, poi deceduto il 22 ottobre 2009 all'ospedale Sandro Pertini, a dare il via al pestaggio.
"Lui e Cucchi avevano battibeccato più volte per tutta la notte, erano arrivati all'insulto. Cucchi non voleva fare il fotosegnalamento, non voleva sporcarsi con l'inchiostro e aveva mimato il gesto dimostrativo di una sberla. Di Bernardo invece diede a Cucchi uno schiaffo violentissimo mentre D'Alessandro gli sferrò un calcio al gluteo. Poi Di Bernardo spinse a terra Cucchi, che cadde col bacino e picchiò la testa, tanto sentii il rumore. E mentre stava giù gli arrivò un calcio in faccia da parte di D'Alessandro. Intervenni, gridai 'che cazzo fate', come vi permettete, fatela finita'. E se non fossi intervenuto, allontanandoli da Stefano, i due colleghi avrebbero proseguito".
"Chiesi a Stefano come stesse, mi rispose che stava bene ('io sono un pugile') ma si vedeva che era intontito. Chiamai il maresciallo Roberto Mandolini, mio superiore, mi disse di rientrare alla caserma dell'Appia. Durante il viaggio in macchina, Di Bernardo e D'Alessandro, che stavano seduti davanti non sembravano per nulla preoccupati. Io, sotto choc, stavo dietro con Cucchi, che si era tirato su il cappuccio, stava a capo chino e non diceva una parola. Solo una volta arrivati in caserma, mentre i due colleghi erano a rapporto nell'ufficio di Mandolini, Cucchi cominciava a parlarmi, mi chiese del metadone e un farmaco".
Gli anni del silenzio, le scuse alla famiglia Cucchi
Perché tutti questi anni di silenzio? Tedesco ha voluto fare una premessa: "Anzitutto chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile. Non era facile denunciare i miei colleghi. In dieci anni della mia vita non avevo raccontato niente a nessuno".
Tedesco ha confessato di essere stato subito isolato dai colleghi e invitato, a mò di minaccia, a seguire la linea dell'Arma se avesse voluto fare ancora il carabiniere. E così non ha raccontato quanto sapeva al pm Vincenzo Barba che lo aveva convocato in procura nell'ottobre del 2009. E aveva detto il falso pure nel 2011 nel primo processo che vedeva imputati medici del Pertini e tre agenti di polizia penitenziaria, assolti in tutti i gradi di giudizio.
"La mia relazione di servizio sui fatti di quella sera - ha raccontato Tedesco - era stata fatta sparire, avevo fatto delle denunce precise e non c'era più niente. Sono state modificate le annotazioni in mia presenza come se non esistessi, Mandolini mi ha invitato più volte a sorvolare su alcuni episodi, tanto ci avrebbe pensato lui come comandante della caserma a gestire la cosa. Nel 2015, quando siamo stati sentiti in procura, abbiamo capito che le cose si stavano mettendo male e allora ho deciso di raccontare al mio avvocato tutto quello che sapevo".
"Quando ho letto il capo di imputazione per questo processo - ha detto il vicebrigadiere - era esattamente descritto quello che io avevo visto con i miei occhi. Ci ho pensato e ho capito che non riuscivo più a tenermi questo peso. Probabilmente avevo sottovalutato i fatti: non pensavo che tra la caduta e il pestaggio potesse esserci un nesso con l'evento morte".
Il commento di Ilaria Cucchi
La deposizione di Tedesco è stata commentata con soddisfazione da Ilaria Cucchi: "Dopo dieci anni di menzogne e depistaggi in quest'aula è entrata la verità raccontata dalla viva voce di chi era presente quel giorno. Sentivo il carabiniere Tedesco descrivere come è stato ucciso mio fratello - ha aggiunto - e il mio sguardo cercava quello dei miei genitori che sentivano raccontare come è stato ucciso il loro figlio. È stato devastante, ma a questo punto quanto accaduto a Stefano non si potrà mai più negare".
Il giorno del primo interrogatorio davanti al pm il vicebrigadiere venne invitato a raggiungere Brindisi per ritirare un atto urgente: si trattava della notifica del procedimento disciplinare che può portare al licenziamento. "Al momento sono sospeso e devo dire che mi sento bene, sto più tranquillo ora, lontano da pressioni e intimidazioni, che all'epoca. Non sono più solo da quando ho saputo che aveva parlato l'appuntato Riccardo Casamassima".