Negli ultimi anni, soprattutto nelle grandi città, si sono diffuse a macchia d'olio, spesso in parallelo con la chiusura di analoghi esercizi gestiti da italiani, che non riescono a competere con i prezzi bassi e gli orari di apertura prolungati fino al cuore della notte.
Sulla carta sono frutterie ma vendono un po' di tutto e, a tarda sera, vi si acquistano soprattutto alcolici. A gestirle sono spesso cittadini bengalesi, tanto che nel linguaggio di uso comune vengono definiti "bangla". E sono diventate il nuovo obiettivo di Matteo Salvini che, nella sua diretta Facebook sul tetto del Viminale, ha annunciato che "nel decreto sicurezza e immigrazione confluirà un emendamento in cui si chiede "la chiusura entro le 21 dei negozietti etnici che diventano ritrovo di ubriaconi, spacciatori e di gente che fa casino".
"Non è un'iniziativa contro i negozi stranieri ma per limitare abusi di certi negozi che diventano ricettacolo di gente che fa casino", ha aggiunto il ministro. Che i "negozietti etnici" di cui parla siano i 'bangla' è palese, sebbene tali negozietti spesso di etnico non vendono un bel nulla.
Un annuncio che sta già suscitando sconcerto e amarezza tra categorie sociali quali gli studenti fuori sede e alcuni professionisti (guardie giurate, medici, giornalisti) che, lavorando sino a ore antelucane, possono contare nel tragitto verso casa sul conforto di una Peroni fredda da scolare prima di andare a dormire, in mancanza di bar aperti.
Senza trascurare le perplessità di associazioni quali Confesercenti e Codacons, che da una parte paventano discriminazioni, dall'altra sottolineano che con la chiusura alle 21 di tali negozietti non si risolverebbe il problema di base, che è la loro scarsa trasparenza, a partire dalla qualità dubbia e della spesso inesistente tracciabilità dei prodotti venduti.
Perché è vero che il diffondersi dei 'bangla' ha costretto molti alimentari di quartiere a chiudere i battenti ma, proprio per questo, farne un problema di ordine pubblico non appare il modo più efficace per affrontare una questione sorta con il 'Salva Italia' di Monti, che ha esteso gli orari di apertura delle attività commerciali.
Da dove arrivano i prodotti?
Le risposte arrivano da un rapporto intitolato “Il (povero) diavolo nascosto nel dettaglio”, redatto da due giornalisti indipendenti, Maria Panariello e Maurizio Franco, e riassunto da GreenMe. "Secondo il rapporto a Roma il 42% delle nuove imprese commerciali è rappresentato dai banglamarket che in molti casi fungono sia da sede di lavoro che da abitazione che da centro di aggregazione della comunità", si legge sul sito, "servono circa 15 mila euro per avviare un negozio, mentre il 20/24% del totale delle rimesse viene spedito alle famiglie che sono rimaste nel paese d’origine. Da dove arrivano i prodotti? Su Roma, il 90% del fresco da Guidonia e il 10% da Fondi, vengono organizzati degli acquisti collettivi, c’è un indotto fatto di autotrasportatori che smistano ai punti vendita, incassando da ognuno 5 euro. Per gli alcolici l’approvvigionamento avviene invece ai supermercati".
"Negli ultimi anni la qualità e la selezione è migliorata, ma gli utili non sono alti. Un commerciante bengalese è contento se entrano 50-60 euro al giorno, quindi sui 1.500 euro al mese. Se un italiano invece non ha un utile di 3.000 euro al mese, chiude, perché con 1.500 euro non potrebbe mai vivere"
Sfruttano le offerte della Grande distribuzione per le bevande gassate e l’acqua e sporadicamente si riforniscono al mercato rionale di Piazza Vittorio: quattro o cinque cassette di ortofrutta con patate, cipolle, pomodori, insalata, radici di zenzero e spicchi d’aglio, assediati da flaconi di shampoo e saponi, conserve di ogni tipo e bottiglie di vino. In questo caso, la verdura è da considerarsi un “prodotto civetta” dal prezzo infinitamente basso, che attira il consumatore", prosegue GreenMe, "il cliente, cioè, entra attirato dalle cassette esposte all’esterno, su cui svettano targhette con prezzi stracciati (0,99 centesimi), ma acquista soprattutto bibite e prodotti casalinghi". "Quel che ancora manca praticamente ovunque è però la trasparenza: in quasi tutti i negozi non si ritrovano le etichette che certificano la provenienza dei prodotti", conclude la testata, "da dove arrivino questi prodotti? È impossibile capirlo".
Le perplessità delle associazioni
Contro l’iniziativa annunciata da Salvini si schiera Confesercenti, leggiamo sul Sole 24 Ore, che raccoglie la dichiarazione di Mauro Bussoni, segretario generale dell'associazione: «Non si può fare una norma che discrimina determinati imprenditori rispetto ad altri. Chi ha un’attività commerciale ha diritti e doveri: il dovere di rispettare le regole e il diritto di restare aperti, sia che siano esercizi gestiti da stranieri, sia che siano esercizi gestiti da italiani».
«Crediamo che in materia di commercio e sicurezza non sia corretto generalizzare - spiega invece al quotidiano economico il presidente del Codacons, Carlo Rienzi - Tali negozi etnici sono molto utili ai consumatori, perché rimangono aperti più a lungo degli altri esercizi e commercializzano una moltitudine di prodotti di diverse categorie, consentendo ai cittadini di fare acquisti “last minute”. Certamente la loro apertura va vietata in tutti quei casi in cui gli esercizi in questione creino disordini, e in modo assoluto nei centri storici delle città, perché la loro presenza alimenta il degrado urbano e danneggia le bellezze artistiche come nel caso di Roma, dove alcune vie del centro sono state trasformate in suk».