“O noi o l’editrice di CasaPound”. Dopo Carlo Ginzburg, Zerocalcare, Christian Raimo e Wu Ming, l’ultima defezione eccellente dal Salone di Tornio è quella del Museo di Auschwitz, come riporta La Stampa.
Il quotidiano oggi dedica il titolo di apertura della sua prima pagina alle polemiche: “Il Salone del Libro finisce nella trappola dell’editore di CasaPound”. E non ci saranno anche “Roberto Piumini, Salvatore Settis e Tomaso Montanari” aggiunge il Corriere.
“Perché io vado”
Tuttavia le defezioni hanno spinto molti autori ad aggregarsi intorno al Salone. “Da Marco Missiroli ad Alessandro Robecchi, da Silvia Ballestra ad Antonella Lattanzi, molti sui social hanno rilanciato l’hashtag #iovadoaTorino. Michela Murgia, ha invitato i lettori a presentarsi al suo incontro di sabato” fa l’elenco il quotidiano di via Solferino.
Dunque oggi è la giornata di chi al Salone ci vuole restare e non lo vuole abbandonare. Di più, sente “il dovere di andare, nonostante i nuovi fascismi”.
Così scrive Concita De Gregorio, firma di la Repubblica, a partire dalla prima pagina. “Mi unisco alla protesta ma vado”, scrive la giornalista e scrittrice.
“Vado perché credo nel confronto, e nella mia esperienza il confronto si fa con il corpo, con la parola e con il gesto. In battaglia ciascuno è chiamato a usare le armi di cui dispone: la mia è il mio mestiere. Ci sono cose in cui credo, cose che penso, cose che scrivo: il mio modo di oppormi al fascismo è dirle, e sperare che siano in molti ad ascoltare”.
“Quanti più saranno, ad ascoltarle, a Torino, tanto più senso avrà avuto esserci. Vado perché non credo di aver bisogno di dimostrare che sono antifascista con l’assenza. La mia vita lo dice, il lavoro di ogni giorno — in presenza: non serve, su questo, spendere neanche una parola”.
Poi aggiunge: “vado perché ho capito che qualcuno ha comparato uno spazio, poteva essere un marchio di parmigiano, di aspirapolveri, e invece era un editore fascista” e “ne deduco che serve un criterio di ammissione, mercantile, che al momento non esiste”, “vado dunque anche per gratitudine e rispetto del lavoro di chi organizza il Salone, di chi lo ha salvato e rilanciato in questi anni pericolosi e difficili”, “vado, nell’assoluto rispetto di chi ha scelto — come gesto politico e civile — quello di non andare. Mi auguro che ciascuno di loro capisca e rispetti il mio. Vado a dire quello che penso, a discutere con chi dissente da me. Corpo a corpo. Speriamo di essere in tanti, e che questo spendersi sia utile a tutti”.
Anche lo scrittore Sandro Veronesi dalle pagine culturali del Corriere della Sera spiega il motivo “perché è gusto andare” in quanto “spetta alla giustizia esprimersi sula destra estrema, ora parli” sollecita l’autore, sulla base della “XII Disposizione della Costituzione italiana, detta ‘transitoria’ ma ormai anche ‘finale’, che recita: ‘È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». (‘Sotto qualsiasi forma’ è il passaggio chiave).
“La Legge Scelba, del 1952, sanziona col carcere da 18 mesi a quattro anni la ricostituzione del suddetto partito fascista nonché l’apologia del fascismo, la denigrazione dei valori della Resistenza e i metodi razzisti. Io partirei da qui”.
“Finché saranno in vigore quella Disposizione e quegli articoli di legge sarà compito della magistratura e della Corte Costituzionale individuarne la violazione e decidere di conseguenza. Poi – aggiunge – si può manifestare, protestare e organizzare dimostrazioni di piazza per sostenere e rinforzare questi valori fondanti del nostro ordinamento”.
Argomento sul quale concorda anche lo scrittore Eraldo Affinati che in una dichiarazione al Messaggero sostiene che “il fascismo si combatte con le idee, per i reati di apologia c’è la magistratura”.
Ma “ma chiedere agli autori di disertare il Salone del Libro d i Torino perché tra gli editori presenti ce n’è uno che appartiene alla galassia del neofascismo italiano è un errore” sostiene Veronesi.
“Io andrò al Salone a presentare un libro scritto da Elena Stancanelli (…) e presentare quel libro per me equivale a chiedere ancora una volta l’intervento di un arbitro che interrompa l’ottuso soliloquio di un figurante in divisa e stabilisca cosa si può dire e cosa non si può dire, e soprattutto cosa si può fare e cosa non si può fare, nel nostro Paese fondato sui valori della Resistenza”.
C’è anche chi non va
Il Fatto Quotidiano dedica le due pagine centrali della cultura intorno alle polemiche del Salone, facendo l’elenco di “Chi va e chi no al Lingotto”, la sede dell’esposizione. Sentendo poi l’opinione degli storici dell’arte Salvatore Settis e Tomaso Montanari per il quali il punto della questione “sono i legami con Salvini” dell’editore di estrema destra.
Mentre Il Foglio, per la firma di Giuliano Ferrara, parla di un “Salone di due intolleranze dominanti”, attaccando subito: “Gli eventi culturali sono spalmati di una marmellata che non mi piace. Il retrogusto è dolciastro. Culturale fa rima con promozionale. Non sono quindi la persona giusta per dirimere la controversia sull’editore fascista, il suo padiglione al Salone di Torino, il libro del Truce e la rivolta dello scrittore collettivo antifa. Mi limito a un’osservazione. È tipicamente corretto, politicamente corretto, pretendere che un luogo culturale, di istruzione, di discussione, sia preservato da quello che nuovi canoni ambigui hanno definito hate speech, discorso d’odio”.
Il punto, per Ferrara, è che “e il mondo umano ha bisogno di contraddizione, quale che sia il rapporto di ciascuno con la verità, e ogni pensiero dominante, addirittura unico, è da contrastare in modo fervente”.
Aggiunge Andrea Minuz sulle stesse pagine: “Il richiamo all’antifascismo come sortilegio (la trasformazione dell’antifascismo in religione, diceva Del Noce, ha prodotto un’interpretazione ‘demonologica’ del fascismo, il fascismo come ‘surrogato del diavolo in un secolo in cui i teologi hanno smesso di crederci’, da qui la sua natura proteiforme, inafferrabile, il fascismo c’è sempre, anche quando non c’è)”.
“Certe cose non le ho mai dette”
“Ora basta” dice in una nota Francesco Polacchi, l’editore del libro-intervista con Salvini e militante di CasaPound.
“Quelle parole sulla dittatura non le ho mai dette per come sono state riportate dalla Stampa e sono state travisate. La questione è che pur di censurare Matteo Salvini, coinvolto suo malgrado in questa bagarre per la scelta di Chiara Giannini di pubblicare con noi il suo libro intervista, ogni giorno mi vengono messe in bocca parole che non ho mai pronunciato e si tira in ballo la casa editrice in vicende con cui nulla ha a che fare”.
Per poi aggiungere che lui e la sua casa editrice AltaForte al Salone ci sarà, “per fare cultura e dare ai suoi libri la vetrina che meritano”.
“Questa levata di scudi nasconde tutto il fastidio per una produzione editoriale che affronta senza timore di smentita gli argomenti più scottanti dell'attualità italiana da punti di vista non omologati, rompendo le uova nel paniere - come si suol dire - in tema di immigrazione e ong, Euro e Europa, Franco CFA e neoliberismo, #metoo e neofemminismo, senso della Patria e sovranismo. Rivendichiamo il diritto di proseguire nel nostro lavoro con la serietà e la dedizione che contraddistinguono ogni buon editore” si conclude il comunicato.
Su La Stampa una breve cronaca riferisce che alla vigilia della kermesse libraria “per adesso il Lingotto è un cantiere rumoroso con gli operai che mettono a punto gli spazi”, giovedì l’apertura. Ma “adesso è allarme sicurezza intorno allo stand della discordia”.