L'Italia è frammentata e divisa in tema di capacità di gestire e arginare le calamità naturali. A scattare questa fotografia è stato un gruppo di ricerca del Centro euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), dopo aver elaborato un nuovo indice di resilienza ai disastri. Lo studio, dal titolo “Constructing a comprehensive disaster resilience index: The case of Italy” , ha analizzato 8092 comuni italiani, misurando la loro capacità di resistenza alle catastrofi.
“La nostra ricerca si sviluppa nell’ottica di fornire un quadro conoscitivo più completo e dettagliato della capacità di rispondere alle calamità su base geografica, in Italia. Sta poi alle istituzioni muoversi nella direzione giusta, collaborando a diversi livelli e coinvolgendo i portatori di interesse”, ha sottolineato all’Agi Mattia Amadio, uno dei quattro autori dello studio, attualmente ricercatore al CMCC e dottore di ricerca in Science and Management of Climate Change all’Università Ca’ Foscari.
Negli ultimi anni, i rischi legati alle calamità naturali sono aumentati a causa di diversi fattori, tra cui l'urbanizzazione non pianificata, la crescita demografica, il degrado degli ecosistemi e dei servizi ad essi connessi e, non ultimo, il cambiamento climatico. “L'Italia – si legge nel report - è altamente esposta ai rischi naturali: capire come la resilienza è distribuita sul territorio italiano è cruciale al fine di assegnare risorse adeguate per far fronte alle calamità”.
Quali sono gli strumenti per gestirle e limitarne i danni?
"Come racconta chiaramente la storia delle catastrofi italiane, il nostro è un paese soggetto principalmente a calamità di tipo idrogeologico (alluvioni fluviali, inondazioni costiere, flash-floods, frane e smottamenti) e geologico (terremoti, eruzioni vulcaniche). L’Italia è il primo beneficiario del Fondo Europeo di Solidarietà, che aiuta gli stati colpiti da emergenze a far fronte ai danni da calamità naturali".
Questo significa che le catastrofi naturali si presentano più frequentemente nel nostro Paese?
"Non necessariamente, piuttosto indica una scarsa capacità di anticipare e prevenire il disastro, e di far fronte ad esso. Le ragioni di ciò sono molteplici, e come indica il quadro Sendai, il primo passo per far fronte ai disastri è capirli: solo conoscendo gli elementi in gioco si può pensare di preparare una risposta adeguata".
Cos'è il Quadro Sendai?
"Il Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di catastrofi 2015-2030 (Sendai Framework) è il primo importante accordo dell'agenda di sviluppo post 2015. È stato approvato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite in seguito alla terza conferenza mondiale sulla riduzione dei rischi di catastrofi (WCDRR 2015) tenutasi a Sendai (Giappone) nel 2015. Il piano contiene sette obiettivi e quattro priorità d'azione".
Quale è il suo fine?
"È un accordo volontario e non vincolante di 15 anni in cui si riconosce che lo Stato ha il ruolo principale di ridurre il rischio di catastrofi, ma anche che la responsabilità dovrebbe essere condivisa con altre parti interessate, compresi il governo locale, il settore privato e altre parti interessate. Il suo obiettivo è 'la sostanziale riduzione del rischio di catastrofi e delle perdite di vite umane, mezzi di sussistenza e salute e delle risorse economiche, fisiche, sociali, culturali e ambientali di persone, imprese, comunità e paesi'".
Lo studio analizza il tema della resilienza alle catastrofi della nostra Penisola. Ma che cosa si intende per “resilienza”?
"Con resilienza si intende la capacità di far fronte alla calamità, e di ritornare allo stato “normale” precedente ad essa. Nella nostra ricerca, la resilienza è stimata come somma di due componenti principali: la capacità di risposta alla calamità a breve termine (coping capacity) e la capacità di adattamento ad essa sul lungo termine (adaptive capacity)".
Quali sono gli indici di cui vi siete serviti per condurre lo studio e trattare i dati ottenuti?
"Non esiste un metodo condiviso da tutti per misurare la resilienza. Oltre alle questioni teoriche, principalmente legate alla scelta degli indicatori, ci sono anche questioni metodologiche, ovvero come questi indicatori vengano combinati assieme per fornire un’unica misura. Metodi diversi possono portare a risultati finali anche assai diversi. La nostra ricerca è innovativa perché supera questi problemi esaminando diverse opzioni nella composizione dell’indice e fornendo infine una rappresentazione geografica unica a scala municipale, in modo tale che i responsabili amministrativi a tutti i livelli possano utilizzarla".
Come avete ideato l’indice di resilienza alle catastrofi?
"L’abbiamo costruito tenendo conto di diversi elementi, tra cui accesso ai servizi, capacità economica, qualità delle istituzioni, condizioni abitative e densità di popolazione, coesione sociale, istruzione, ma anche stato ambientale e protezione degli ecosistemi. Abbiamo confrontato questo risultato con l’indice di vulnerabilità sociale precedentemente prodotto da ISTAT, e fornito una misura delle differenze tra le due rappresentazioni. Esse concordano nella maggior parte dei comuni, ma alcune aree mostrano differenze degne di nota".
Per esempio?
"Sia l’indice di vulnerabilità sociale che l’indice di resilienza ai disastri evidenziano il divario Nord-Sud, dovuto principalmente a differenze economiche, istituzionali e di istruzione, ma si può notare una certa variabilità anche all’interno delle stesse regioni. I due indici mostrano invece discrepanze marcate localizzate principalmente in Lombardia, Trentino, Sardegna, Basilicata e Puglia.
Bassi punteggi di resilienza alle catastrofi sono localizzati in zone montane o di collina e sono in larga parte dovuti alle difficoltà di accessibilità ai servizi di risposta alle emergenze (ospedali e vigili del fuoco). Spesso in studi simili vediamo utilizzato il GDP come principale indicatore legato alla resilienza. Noi, invece, volevamo porre l’accento sul fatto che i fattori geografici possono influenzare la resilienza, così come la influenzano la capacità economica dei comuni, la coesione sociale e la solidità istituzionale. Se non si considerano tutti gli aspetti di un fenomeno, si rischia di trarre conclusioni sbagliate. Per questo è necessario confrontare modelli basati su approcci diversi (sensitivity analysis). Ciò aiuta a valutare la robustezza dell’informazione fornita al decisore".