Il caso delle famiglie Rom contestate e cacciate dal centro di accoglienza del quartiere di Torre Maura, a Roma, tra spinte, insulti, cori e saluti fascisti, si impone all’attenzione dei quotidiani del mattino, tra cronaca e riflessioni.
È la Repubblica ad avere il titolo di apertura più forte e d’impatto, a disvelare un sentimento sociale crescente come un’emergenza: “Il nostro odio metropolitano”. Che nel Messaggero, il quotidiano della Capitale, diventa “Periferia contro Raggi: basta rom” e che su La Stampa è un richiamo, di spalla, di servizi interni: “Roma, la polveriera si ribella ai rom. ‘Vi bruciamo vivi’”. E se per il Corriere della Sera il primo titolo della colonna di spalla è “I nomadi se ne vanno (rimane la protesta)”, per Fatto quotidiano “Casa Pound aizza il quartiere contro donne e bambini”.
Il contenzioso di Torre Maura si può forse riassumere in questo titolo di pag. 3 de la Repubblica che recita: “’A noi gli sfratti e a loro date una casa’, il quartiere caduto nell’abisso” nel cui clima Carlo Bonini ci conduce come si trattasse di un film: “È un Municipio, il VI, grande quanto Verona o Venezia. Duecentocinquantamila naufraghi alla deriva, tredici chilometri a est del Campidoglio. Quattordici da Montecitorio e dal Viminale. Dove il Grande Raccordo Anulare affetta, separandolo, chi è dentro da chi è fuori e il cartello stradale ‘Roma’ indica una città che qui non finisce ma al contrario comincia. Il Municipio delle Torri. Torre Maura, appunto. E Tor Bella Monaca, Torre Angela, Tor di Nona, Torre Spaccata. Dove un tempo c’era l’Agro, e ora solo cemento. E dove persino la toponomastica è una beffa, con strade ridotte a crateri lunari intestate alla leggiadria degli uccelli o alla resilienza di un giornalista come Walter Tobagi, ultimo rettifilo di asfalto prima del gomito che immette in via dei Codirossoni, plurale di Codirossone, ‘uccello passeriforme della specie Muscicapidae’. Ultima fermata dell’odio di prossimità e di un contagio che si è mangiato gli uomini e le cose. Un pezzo alla volta”.
Un argomento che, nella cronaca di Goffredo Buccini sul Corriere (“Ma quali xenofobi, tutto cade a pezzi. Qui non passa più nemmeno il tram”, il titolo), viene così sviluppato: “Non si comprende il rancore senza guardare in faccia la disperazione. L’ultimo salumiere si chiamava Sandroeha chiuso due giorni fa, le serrande abbassate delle botteghe d’una volta sono voragini nel tessuto urbano e nell’ipotesi di restare umani. ‘Via dei Colombi è una landa sperduta, non ci passa più nessuno da quando ci hanno tolto il tramvetto’, sospira Sergio Becattini, che di anni ben portati ne ha 79 e sta nel comitato inquilini di queste case popolari costruite nel 1977 in una borgata dai toponimi assurdamente ornitologici abbandonata via via da ogni politico e da ogni istituzione al degrado, al buio, alla paura: 620 le famiglie, duemila e passa i residenti che per fare la spesa devono ‘attraversare la Casilina’, non proprio dietro l’angolo, e che ogni notte pregano perché le crepe lunghe tre metri nei loro androni reggano ancora un po’, perché l’umido che inzuppa i muri non diventi alluvione. Il centro di Roma da qui è un’astrazione lontana 40 minuti di moto, un tempo imprecisato in macchina, l’incertezza della metro comunque da raggiungere”.
La notizia della “guerra” di Torre Maura Il Giornale non la mette nemmeno “in prima”, però al tema dedica un commento del direttore Alessandro Sallusti, il cui cuore è: “Certo, stiamo dalla parte dei residenti esasperati e tre volte vittime: della Raggi, dei rom e di CasaPound. E ci auguriamo che qualcuno si occupi seriamente dei loro problemi, non a parole, non con la forza, ma con la politica e il buon senso. Non siamo ottimisti che ciò accada perché il problema, non solo a Torre Maura, è l’eccesso di tolleranza che in tutti i campi viene invocato da opinionisti, intellettuali e politici di sinistra. La tolleranza non può essere illimitata, pena la sua autodistruzione, (…) La tolleranza è anche una delle facce dell’indifferenza, un vezzo di chi non vive i problemi sulla sua pelle ma li affronta in modo accademico. Facile fare i tolleranti con le intolleranze dei rom se non hai un campo sotto casa”.
Identica la scelta di Libero (niente titolo “in prima”) ma un commento di Vittorio Feltri (titolo: “Non volere i rom sotto casa è legittima difesa”): “Andare lancia in resta sugli zingari non è elegante, ma tenerseli tra i piedi è ancor meno piacevole. Infatti nessuno ha mai capito come essi campino visto che non lavorano, forse non trovano un posto e forse non lo cercano nemmeno. Preferiscono probabilmente vivere di espedienti, e non è un mistero che si distinguano da sempre per una specialità in cui sono maestri: il furto con destrezza. (…) . Non è lecito dire che tutti gli zigani siano malfattori incalliti (…) Sarebbe meglio che continuassero a risiedere nei campi assegnatigli dal Comune onde evitare una contaminazione dalla quale vi è il rischio scaturiscano frizioni sociali complicate da gestire in modo pacifico”.
Punti di vista che nel commento dell’antropologo Marino Niola, su la Repubblica, vengono rovesciati per focalizzare invece un episodio, in particolare, preso a simbolo dell’intero “caso Torre Maura”: “L’oltraggio al pane”. “Calpestare il pane – si legge – significa calpestare l’umanità. Ed è proprio quel che è accaduto martedì nel quartiere romano di Torre Maura dove una folla inferocita ha distrutto i panini destinati ai rom, ospiti indesiderati nel centro di accoglienza del Comune. Se è vero che ogni protesta legittima è possibile, questo gesto è intollerabile. Addirittura sacrilego. Perché fa scempio di quello che dagli albori della civiltà occidentale, ai cui valori si richiamano molti dei manifestanti, è il simbolo stesso dell’umano. Alimento ordinario dell’uomo civilizzato lo definiscono i dizionari. Come dire che chi oltraggia il pane si chiama automaticamente fuori dal consorzio civile. Non solo perché mal tollera che quegli “zingari”, temuti ed esecrati, sostino su quello che considera un territorio di sua esclusiva proprietà dimenticando che uno spazio pubblico è di tutti e non solo degli abitanti del quartiere. Ma soprattutto perché i trecento giustizieri, a quelle donne, a quegli uomini, a quei bambini non hanno riconosciuto lo statuto di persone. Li hanno trattati come residui ingombranti da smaltire con le buone o le cattive”.