AGI - Sono passati tre anni da quel 20 febbraio 2020, quando l’Italia precipitò improvvisamente, primo Paese occidentale, nell’incubo del Covid. Quando tutti, anche gli esperti, pensavano che il peggio fosse passato, con l’epidemia in Cina apparentemente rimasta circoscritta, in realtà non era neanche cominciato.
A Codogno, operoso paese nel Lodigiano, il 40enne Mattia Maestri sta male, ha la febbre alta, respira a fatica. I medici non riescono a migliorare le sue condizioni, le cure anche antibiotiche non fanno effetto. Finché Annalisa Malara, anestesista dell’ospedale di Codogno, non si decide a eseguire un tampone, contravvenendo alle indicazioni ministeriali allora in uso (per essere un caso “sospetto” il criterio principe è ancora l’essere stati di recente in Cina, e Mattia non ci aveva mai messo piede).
L’esito agghiaccia tutto l’ospedale: positivo. Come risulta positiva la moglie incinta, E poi altri casi: 3 positivi, poi 7, poi 15. E ne sbucano anche in un altro paese di provincia, distante però centinaia di chilometri: Vo’ Euganeo, nel Padovano. Dove si registra anche il primo morto ufficiale per Covid, un pensionato.
Nessuno è stato in Cina, impossibile ricostruire le catene di contagio. È chiaro quasi subito che non sono casi isolati, ma solo la punta di un iceberg le cui dimensioni si conosceranno solo nei giorni seguenti: già tre giorni dopo, il 23 febbraio, i casi confermati sono oltre 300. Nel giro di una settimana salgono a 4.000, poi all’inizio di marzo il famoso decreto ‘Tutti a casa’ del governo Conte. L’Italia sperimenta per la prima volta nella sua storia il lockdown.